La porta dell’Inferno – Viaggio nelle Classiche del Nord – Seconda parte

arenberg

Una settimana dopo l’aperitivo del Fiandre, si passa all’inferno vero, quello della Parigi-Roubaix. L’Apocalisse del ciclismo, un insieme di ciottoli, fango o polvere, cadute: una gara a eliminazione segnata anche da forature o da imprevisti meccanici, uno sport che si allontana dal ciclismo tout court, vira verso il ciclocross ed entra nell’epica sportiva. Solo per cuori forti e uomini d’acciaio, la Roubaix è stata ribattezzata la “Dura tra le dure”, la Regina delle Classiche, o semplicemente l’Inferno del Nord. Ed è dalla porta dell’inferno che inizia la seconda parte del nostro racconto.

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Stavo tornando in Italia da un viaggio di lavoro. Attraversati i Paesi Bassi, ero al confine tra Belgio e Francia, in uno di quei luoghi-non luoghi dove non capisci se sei di qua o di là, ed era finalmente giunto il momento di deragliare di qualche chilometro per raggiungere Wallers, piccolo comune di 5mila abitanti nella regione Nord-Passo di Calais, in Francia.

Pioveva, ma non mi importava, non dovevo fare un picnic: dovevo andare per qualche minuto, davanti alla porta di ingresso dell’Inferno. Nel comune di Wallers c’è la Foresta di Arenberg, uno dei passaggi più emozionanti della Parigi-Roubaix, uno dei tratti di pavé più impegnativi che vengono classificati, in base alla loro difficoltà, con una valutazione da uno a cinque stelle. Arrivato nelle vicinanze della famosa strada lastricata, pensavo di poter attraversare i 2,4 km a bordo della mia auto, fiero e felice di poter vedere l’ennesimo tempio sportivo e poter, un giorno, raccontare le mie emozioni, ricordare quel giorno in cui: “Una volta ho passeggiato nella foresta di Arenberg…”. E invece no. Non solo la Foresta è inaccessibile ai veicoli a motore (dovevo immaginarlo!), ma in quel periodo il famoso settore era in pessimo stato e si stavano compiendo dei lavori di manutenzione: l’Inferno era momentaneamente chiuso. Lo vidi come un chiaro segno del destino, girai l’auto e ripresi il mio viaggio verso casa.

Quando nel 2005 il tratto di pavé della Foresta fu escluso dal percorso, guardai la Roubaix con distacco, come se fosse una gara dimezzata, quando, in realtà, la Foresta è lunga soltanto due chilometri e quattrocento metri sugli oltre duecentosessanta della Classica.

Nonostante la presenza o meno della Foresta, la Roubaix è, resta e sarà sempre una gara simbolo. È ciclismo antico, con impegnativi tratti di pavé, con le strade sterrate, i ciclisti che bramano strisce di asfalto, mentre i loro volti infangati, impolverati e segnati da fatica e sudore, sognano la gloria nel Velodromo di Roubaix. La Roubaix venne ribattezzata Inferno del Nord nel 1919, dopo la sospensione bellica del triennio ‘15-’18. In quell’anno venne riconsegnata ai ciclisti e agli appassionati. Fu così che tra alberi bruciati e neri di fumo, case e cascine distrutte dal conflitto, carcasse d’animali a marcire a bordo strada, ci si rese conto di quanto quel paesaggio assomigliasse ad un vero e proprio inferno.

«Questa non è una corsa! Questa è una porcheria! Non la farò mai più»
Bernard Hinault

Bernard Hinault
Bernard Hinault

La prima Roubaix che ricordo la vidi con mio nonno sul tv in bianco e nero del salotto di casa. Era il 1981, un’edizione che è rimasta impressa nella memoria degli appassionati. Normalmente la Roubaix è una corsa da matti che distrugge muscoli e biciclette, ma quella fu una vera e propria battaglia. Vinse Hinault in un pomeriggio ai confini della realtà. Il francese della Renault cadde ripetutamente (cinque volte) e una di queste fu colpa di un cane che gli tagliò la strada facendolo ruzzolare a terra. Poco dopo un’ammiraglia finì fuoristrada costringendo Bernard, detto il Tasso, ad attraversare un campo, cosa che non gli impedì di raggiungere i fuggitivi e batterli in volata nel Velodromo di Roubaix. Roba da duri.

Ovviamente lo spettatore televisivo sogna una Roubaix ai limiti del praticabile. Pioggia, fango, pavé scivoloso e grado di difficoltà sempre più elevato via via che i chilometri si susseguono: uno spettacolo sadico, che spesso è stato contestato duramente dagli stessi protagonisti. La Parigi-Roubaix è così, o si ama o si odia.

Nata nel 1896 da un’idea di due filatori di Roubaix che costruirono il famoso velodromo (1895), la classica vide la luce anche grazie al patrocinio del giornale sportivo Le Velo e del suo caporedattore, Louis Minart. Per Le Velo scriveva di ciclismo Victor Breyer, che fu l’organizzatore della prima edizione. Fu lui a toccare con mano, dopo una lunga giornata sotto la pioggia, la durezza della gara. Breyer giurò di scrivere a Minart una volta arrivato a Roubaix, implorandolo di sospendere quella gara diabolica, così pericolosa per i partecipanti. Per fortuna, per tutti gli amanti del ciclismo, quella lettera non venne mai spedita.

«Datemi retta: se non la fanno, non credete a tutte quelle balle che dicono sulla preparazione, eccetera eccetera. Non la fanno perché hanno paura. Perché alla sera, quando tornano in albergo, non vogliono aver la schiena a pezzi e le mani che tremano ancora come quelle dei vecchi»
Eddy Merckx

Partenza da Compiegne (non si parte più da Parigi dal 1967), 265 km di lunghezza (o giù di lì) alternati tra asfalto e pavé, per un totale di 27 settori e circa 52-55 km di ciottoli di porfido: i settori si affrontano in un terribile conto alla rovescia (dal ventisettesimo al primo).

I settori più difficili sono:

  • Quiévy-Saint-Python: venticinquesimo, 4 stelle, km 107, lunghezza 3.7 km
  • Haveluy-Wallers: diciannovesimo, 4 stelle, km 149,5, lunghezza 2.5 km
  • La Foresta di Aremberg: diciottesimo, 5 stelle, km 158, lunghezza 2.4 km
  • Hornaing-Wandignies-Hamage: sedicesimo, 4 stelle, km 170,5, lunghezza 3.7 km
  • Tilloy-lez-Marchiennes -Sars-et-Rosières: quattordicesimo, 4 stelle, km 181,5, lunghezza 2.4 km
  • Auchy-lez-Orchies –Bersée: undicesimo, 4 stelle, km 199, lunghezza 2.6 km
  • Mons-en-Pévèle: decimo, 5 stelle, km 205, lunghezza 3 km
  • Cysoing- Bourghelles: sestultimo, 4 stelle, km 227, lunghezza 1.3 km
  • Camphin-en-Pévèle: quintultimo, 5 stelle, km 234, lunghezza 1.8 km
  • Carrefour de l’Arbre: quartultimo, 5 stelle, km 236.5, lunghezza 2.1 km

«Per dieci giorni ti fa male tutto il corpo come se ti avessero preso a bastonate»
Francesco Moser

L’albo d’oro dice, ovviamente, Belgio. Fiamminghi e Valloni sono i più vittoriosi di sempre e vantano la miglior percentuale di successi (55 su 112, 49%), i francesi si difendono con 28 vittorie, gli azzurri sono terzi con 13 affermazioni: via via tutti gli altri, olandesi (6), svizzeri (4) e irlandesi (2). Una corsa vinta da grandi campioni come Monsieur Roubaix, ovvero Roger De Vlaeminck, forse il più grande interprete sugli sconnessi sanpietrini franco-belgi, uno che i record di questa gara li ha letteralmente sbriciolati: il gitano di Eeklo, classe 1947, ha vinto 4 volte, si è laureato anche campione del mondo di ciclocross per ben 8 volte (unico a fare doppietta con la Roubaix), sempre presente ai nastri di partenza dal 1969 al 1982 (un solo ritiro nel 1980) e una serie di risultati da far tremare le vene ai polsi. Oltre alle vittorie già menzionate, 4 secondi posti, un terzo e tanti piazzamenti mai oltre il settimo posto.

Roger De Vlaeminck
Roger De Vlaeminck

Poi c’è Tom Boonen (anche lui con 4 successi), i soliti Merckx e Van Looy, Museeuw e Cancellara e i nostri Moser (tutti a tre vittorie); il compianto Ballerini (due) e l’unico azzurro, Andrea Tafi, a completare una storica doppietta Fiandre-Roubaix. Proprio l’ultimo successo italiano porta la sua firma. Era il lontano 1999.

La Roubaix racconta storie incredibili, come quella del 1990, vinta in volata per un battito di ciglia da Eddy Planckaert sul canadese Steve Bauer: non bastarono oltre sette ore di gara per decidere il vincitore, così servì il fotofinish e per un solo centimetro fu il belga a spuntarla sulla linea d’arrivo del Velodromo più famoso del mondo. L’altra faccia della Roubaix è quella dei distacchi monstre. Erano i primordi della gara (1901, 1896, 1899) e tra il primo e il secondo classificato ci furono rispettivamente 26’, 25’ e 23’ minuti. Tutto avveniva in uno scenario apocalittico: strade non asfaltate, la gara di oltre nove ore, con le bottiglie di vetro sulle spalle e i ciclisti che si annodavano le camere d’aria sulla schiena. Roba d’altri tempi.

Nel ciclismo “moderno”, il distacco maggiore lo ha fatto registrare De Vlaeminck, che nel 1970 regolò il Cannibale Eddy Merckx a cinque minuti e ventuno secondi. Ma il libro dei ricordi annovera triplette storiche (dal 1901 al 1906) con i francesi ad occupare tutti e tre le piazze del podio, evento accaduto più volte anche ai belgi; oppure giochi di squadra, come quello della squadra italiana Mapei che sistemò sul podio tre suoi esponenti, in uno degli arrivi più chiacchierati di sempre. Siamo nel 1996, e questa non è un’edizione come un’altra: questa è la Roubaix numero 100 e l’ordine di arrivo viene deciso per telefono.

Da un capo dell’apparecchio c’è Giorgio Squinzi, attuale Presidente di Confindustria, attuale Presidente del Sassuolo calcio e all’epoca “solamente” il sig. Mapei, dell’omonima fabbrica di materiali per l’edilizia. A rispondere dall’altro capo del filo c’è Patrick Lefevere, direttore sportivo di quella Mapei dei miracoli che si ritrova a dire: «Obbedisco». In fuga ci sono Johan Museeuw (belga), Andrea Tafi e Gianluca Bortolami. A 5 km dal traguardo, complice una foratura del belga, i due italiani attesero Museeuw e lo condussero fin dentro al Velodromo di Roubaix: Tafi vistosamente contrariato smoccolò in diretta tv e venne ripreso da Bortolami («Andrea! Non fare cazzate!») mentre Museeuw ringraziava platealmente i due compagni di fuga e senza volata alcuna andava ad aggiudicarsi la sua prima Roubaix. Solo a distanza di anni, patron Squinzi svelò il retroscena, stravolgendo la realtà.

«Questa è la vera storia: quando i tre Mapei, Johan Museeuw, Gianluca Bortolami e Andrea Tafi rimasero in testa da soli, mi chiamarono. Dissi di farli arrivare tutti e tre assieme al velodromo di Roubaix. Invece il direttore sportivo Patrick Lefevere dettò l’ordine d’arrivo. Prima Museeuw, secondo Bortolami e terzo Tafi. Certo, Museeuw era il leader, ma se non ci fosse stata la raccomandazione di farlo vincere, Tafi avrebbe vinto perché Museeuw forò, Bortolami ebbe un incidente meccanico ma i tre ragazzi invece si aspettarono»
Giorgio Squinzi

I maligni dicono che a vincere doveva essere, per motivi commerciali, Johan Museeuw, il più forte dei tre. Altri dicono che era stato il pavé a decretare la sua verità attraverso una semplice foratura e solo quella telefonata, in un verso o nell’altro stravolse il destino.

All’arrivo di Roubaix, a vincere, non è sempre il migliore. Ne sa qualcosa Franco Ballerini, che nel 1993 fu sul punto di abbandonare il ciclismo a causa della grande delusione procuratagli dal francese Duclos-Lassalle che lo relegò al secondo posto (questione di centimetri anche in questo caso) in un drammatico arrivo a due nel Velodromo. «Sarà già difficile arrivare con te all’interno del Velodromo. Non riesco a tenerti le ruote», diceva lo scaltro francese ad un fin troppo sicuro Ballerini. Ma nell’anello di Roubaix quella vecchia volpe di Duclos-Lassalle lo cucinò a dovere per poi castigarlo alla maniera dei grandi pistard, per un soffio, mentre il compianto Ballerini alzava il braccio convinto di aver trionfato in una Roubaix dominata dal primo all’ultimo km.

A differenza del Fiandre dove ci siamo sbilanciati alla ricerca di un possibile favorito, rispettiamo troppo questa gara per indicarne un vincitore. Le assenze forzate di Boonen e Cancellara eliminano due dei papabili trionfatori, l’olandese Terpstra (secondo al Fiandre, domenica scorsa) partirà con il dorsale numero uno difendendo il titolo conquistato nel 2014. Il proverbio dice: “Chi entra Papa in conclave ne esce cardinale”, e mai come in questo caso ci sentiamo di sottoscrivere appieno, perché spesso a vincere la Roubaix è un outsider. Un insospettabile che si infila nella fuga giusta, azzecca il momento adatto per scattare, si avvantaggia per una foratura, un guasto meccanico o una caduta. Trionfare alla Parigi-Roubaix è un terno al lotto? Direi più un sei al Superenalotto, ma tant’è, per vincere domenica sarà ancora necessario compiere una impresa.

La Roubaix non si vince, si doma. E se poi, si è davvero più forti di tutti gli altri, allora si finisce per dominare. Perché per vincerla bisogna essere più forti di tutto: del pavé, dei problemi meccanici, della fatica, della pioggia, della stanchezza, dei chilometri. Più forti dei sussulti, più forti anche di sé stessi e dei propri dolori. Non vibra solo la bicicletta sotto i colpi del pavé più duro di sempre, vibrano i cuori dei tifosi, vibrano le corde dell’ultima follia del ciclismo: finché ci sarà la Roubaix, in cuor nostro, potremo contare su qualcosa che va oltre lo sport iper tecnologico e insensibile, dei giorni nostri. Finché sarà Roubaix, sarà ciclismo d’antan, saranno imprese e uomini. E non ce ne sarà mai abbastanza.

 

– Fine –

*Questo articolo è stato pubblicato da Contropiede.net

Pubblicato da Danilo Baccarani

Di Torino, amante di calcio e sport, laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Se rinascessi vorrei la voleè di McEnroe e l'impermeabile di Bogart, ché non si sa mai.

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