L’importanza di chiamarsi Ernests. Ernests, Gulbis

Spero di non essere perfetto. Quando non lo si è c’è possibilità di sviluppo, ed io intendo svilupparmi in molte direzioni.
William Shakespeare, The importance of being Earnest


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“Sono stato anche una notte in prigione a Stoccolma, per aver adescato una prostituta. […] È stato comunque divertente, credo che ognuno dovrebbe andare in prigione almeno una volta nella vita”.
Ernests Gulbis

Ernests Gulbis è un tennista lettone, nato nel 1988. Per anni è stato considerato uno dei migliori talenti in circolazione. 
Proviene da una famiglia agiata: suo padre è un facoltoso uomo d’affari (possiede un gasdotto), sua madre una attrice, suo nonno paterno è stato un giocatore di basket (vinse gli Europei con l’URSS) e suo nonno materno un famoso regista e attore.
Ernest ha tre sorelle e un fratello: una, Laura, è una tennista, mentre suo fratello vive e si allena in Florida dove sta provando ad entrare nel circuito professionistico del golf.
La famiglia di Gulbis è una di quelle che ti consentono di fare una bella vita, comoda, senza troppi problemi e con delle garanzie economiche fuori dal comune.
Se a questo aggiungiamo una certa avvenenza e una naturale ritrosia per la fatica, l’allenamento, la disciplina e la volontà, allora stiamo tracciando in maniera pressoché perfetta la vita tennistica (e non solo) di Ernests Gulbis: ricco, bello, scansafatiche e con una gran voglia di spassarsela.
Del resto, quel vecchio volpone di Niki Pilic ci aveva visto lungo e quando lo ospitò alla sua scuola di Monaco di Baviera, lo bollò in quattro e quattro otto: “È troppo ricco per diventare forte”.

“Lo so, non mi alleno molto. Non mi sono mai allenato molto. Cosa posso farci? Non corro tanto, sono alto. Non posso muovere le mie gambe, ecco perché cerco di colpire forte così non devo muovermi”.

Servizio esplosivo e preciso, con cui realizza molti ace (Gulbis è 60esimo nella classifica di tutti i tempi con 3242 aces), possiede un rovescio solido e potente e unisce a questi due fondamentali una buona risposta al servizio. Dotato anche di un certo tocco spesso gioca pregevoli palle corte e pallonetti. I suoi punti deboli? Il dritto incerto con una preparazione articolata (ma dannatamente affascinante), una difesa a tratti balbettante, una scarsa attitudine al gioco di volo e una scarsa tenuta mentale.
Già in precedenza il Dio del tennis è stato in grado di distribuire talento senza accoppiarlo a sane doti psichiche ma qui siamo di fronte ad un personaggio fuori dal comune.
Intendiamoci, Gulbis non ha il genio e la sregolatezza di John McEnroe o Ilie Nastase.

Qui andiamo oltre. Perché Gulbis vive la sua realtà di tennista come quella di un musicista (tra l’altro ama l’opera e Philip Glass!!) che per esibirsi al meglio dovrebbe provare per ore, vivere in maniera sana, dormire e concentrarsi.
Solo che non ne ha voglia, lo sa e non fa niente per modificare le cose, perché di base, il tennis è un mezzo lavoro, n
on gli interessa né gli importa, perché per lui, il tennis, non è una cosa importante.
Questo è uno sport che occupa la vita di un professionista per 24 ore al giorno per molti anni, altrimenti, addio sogni di gloria. Il tennis non è uno sport che perdona. 

“A mio avviso il tennis è lo sport mentalmente più duro, perché sei sempre solo. Sei molto solo in campo, non hai nessuno da criticare o a cui chiedere aiuto, sei tutto solo e se ti capita di avere una giornata storta, hai una giornata storta e la devi affrontare. Negli sport di squadra se hai una giornata storta, la tua squadra può comunque vincere, puoi lasciar perdere o sostenere il tuo compagno, lui fa goal e tutto va bene, la tua squadra vince e tu mantieni la fiducia vincente. Nel tennis sei solo. È questa la cosa più sfiancante”.

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I risultati, infatti, latitano. Una semifinale slam a Roland Garros nel 2014, un quarto turno a US Open, 6 tornei ATP vinti (tutti 250): due volte a DelRey Beach (Florida), San Pietroburgo e Marsiglia (indoor), Los Angeles e Nizza, quella in Costa Azzurra è l’unica vittoria su una superficie estranea al cemento (terra rossa).
Attualmente il suo record all-time è di 202 vittorie e 170 sconfitte, con un percentuale che supera di poco il 50% (54.3), non granché per uno che è arrivato ad essere numero dieci del mondo (adesso è numero 15).
Il 2015 di Ernest Gulbis è iniziato in maniera (sportivamente) drammatica. Reduce da un brutto infortunio alla spalla e da un off-season non molto produttivo, il tennista lettone ha perso tutte le partite sinora disputate nei tornei a cui ha partecipato: Auckland (Vesely), Australian Open (Kokkinakis), Rotterdam (Thiem), Marsiglia (Chardy), Dubai (Istomin) e finalmente a Indian Wells è arrivata la prima vittoria stagionale contro lo spagnolo Gimeno-Traver.
Due giorni dopo, per mano di Mannarino, il lettone è stato estromesso dal torneo americano.
Ok, l’infortunio, ok l’off-season affrontato in maniera leggera, ma gli avversari che lo hanno sconfitto sono tutti molto più scarsi di lui.
L’unico match che è rimasto indigesto a Gulbis è quello con Kokkinakis (l’avversario più forte da lui incontrato) perché a suo dire, la stagione avrebbe potuto prendere una piega diversa, perché le piccole cose fanno sempre la differenza.

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Se i risultati non arrivano, di te non si parla. Logico. Ma è anche vero che in passato il lettone ha riempito le colonne dei giornali per la sua attitudine al divertimento piuttosto che per le sue vittorie. Ultimamente il ragazzo pare aver messo la testa a posto e le notti brave sono state ridotte drasticamente (parola di Ernests!).
Fino a poco tempo fa le sue dichiarazioni erano di questo tenore:

“Cosa fa la gente quando esce? Si ubriaca. Andare fuori e non bere, non lo capisco. Se vai in un nightclub cosa c’è da apprezzare? Niente. La musica è troppo alta, tutti sono sudati, tutti ballano, è buio, tutti spingono, tutti sono ubriachi. E se c’è una persona sobria nel locale, non ti diverti. Se sei nel mood giusto, bevi un paio di drinks, ti puoi divertire e trarne qualcosa di positivo. Ma non mi piace. Preferisco stare in compagnia dei miei amici e invitare le ragazze. Se inizio a bere, bevo fino all’alba. Non posso andare in un club e bere solo 4 birre. Se vado fuori, bevo tutta la notte e sto fuori tutta la notte”.

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Non va d’accordo con i protagonisti del circuito (giocatori e arbitri). Non va d’accordo con le sue racchette. La sua abitudine a romperle pare essere più un feticcio che una necessità vera e propria: “Poiché rispetto tutti i campi, devo rompere almeno una racchetta su ogni campo del pianeta. Ne rompo circa 60-70 l’anno. Poi, quando vado nella fabbrica dove le costruiscono e vedo tutto il lavoro che fanno, mi dispiaccio. Fanno tutto per i tennisti; pensano davvero ai bisogni dei giocatori, e poi un idiota come me arriva e le rompe. Per farlo devi metterci dello sforzo. Sui campi in cemento, dove è più difficile romperle, con un tentativo l’ho rotta in 5 punti diversi”.
Lo confessiamo: Ernest Gulbis sarà anche matto, ma ci piace così.

Fuori dagli schemi, fuori dalle regole e sopra le righe, politicamente scorretto e bastian contrario, estraneo all’ambiente senza fare mistero di non voler essere come gli altri.

“Il tennis di oggi manca terribilmente di personaggi. Rispetto Federer, Nadal, Djokovic e Murray, ma sono noiosi: andavo su YouTube per ascoltare le loro interviste, ma ho smesso presto. È Federer che ha lanciato questa moda. Ha una grande immagine di gentleman svizzero, perfetta per lui. Lo rispetto, ma non mi piace che i giovani giocatori cerchino di imitarlo. Mi cadono le braccia quando li sento rispondere come Roger, frasi del tipo: “Ho vinto perché ho alzato il mio livello di gioco nei momenti chiave della partita”. Cosa vuol dire? Se ho vinto, sono contento di aver mandato a casa il mio avversario, questa è la verità.”

Fedele al suo modo di essere, caustico e polemico, ferocemente inquietato al punto di odiare chi lo precede in classifica perché, a suo dire, è sicuramente più debole di me, Ernest Gulbis non è disposto a scendere a compromessi.

“Ricordo che Djokovic era un tipo normale, a posto. Ma quando ha ottenuto il suo primo grande successo, il suo sguardo è semplicemente cambiato. Lo si poté notare perfettamente. Non è che litigammo o cose simili, sentii semplicemente che era cambiato e non mi piace questo nelle persone. Mi piacciono i caratteri forti che non cambiano quando arrivano il primo successo o i soldi. Questa è la qualità più importante per me ed è importante per me non cambiare”.

In conclusione, la faccia laconica di Gulbis somiglia a quella Jean-Paul Belmondo in Borsalino: la battuta sempre pronta, il sarcasmo di chi non ha niente da perdere e si può permettere di mandare al diavolo una partita, se non addirittura una carriera intera. 

Si potrebbe dire che il lettone trovi conforto nella sconfitta. Un sentimento privato, necessario al proprio ego per sentirsi compreso, una sorta di Schadenfreude* che in italiano si protrebbe tradurre con “aticofilìa”, dal greco ὰτυχία (atychìa, sventura) e φὶλἐω (philéo, provar piacere, accogliere con piacere, rallegrarsi).
Una sorta di sconfitta rasserenante, un luogo mentale dove gestire i propri malesseri, provare un sottile dispiacere o un dolore profondo.
Ecco, cos’è Ernests Gulbis: un uomo, un tennista che avrebbe voglia di raggiungere obiettivi, ma nel momento in cui li sta per raggiungere o li ha raggiunti, si sente incommensurabilmente vuoto. E solo.
L’importanza di chiamarsi Ernests.
Ernests Gulbis.

 

 

 

*Schaden (danno) e Freude (gioia)
**Tutte le citazioni in italico sono raccolte da interviste ad Ernests Gulbis

Pubblicato da Danilo Baccarani

Di Torino, amante di calcio e sport, laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Se rinascessi vorrei la voleè di McEnroe e l'impermeabile di Bogart, ché non si sa mai.

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