Intro
L’Inter può davvero ambire al titolo di campione d’Italia? Cosa è cambiato da maggio ad oggi, quando la squadra lottava per un posticino UEFA mentre adesso addetti ai lavori e tifosi parlano apertamente di Champions e perché no di quella cosa tricolore da appuntarsi sul petto verso la metà di maggio o giù di lì?
Mancini ha una nuova difesa (Murillo, Miranda, Montoya) e alcuni degli uomini da lui richiesti (Jovetic, Perisic, Melo) ed è anche per questi motivi che l’Inter può lottare per il titolo.
Perché il jazz, l’Internazionale di Milano e un pizzico di anarchia sono elementi adatti a comporre un mosaico potenzialmente vincente.
Perché il jazz?
Qui, di seguito, attraverso le figure di cinque nerazzurri, vi spiego perché il jazz rischia di vincere il campionato di serie A o quantomeno di andarci molto vicino.
Che cos’è il jazz amico? Se lo devi chiedere non lo saprai mai.
Louis Armstrong
L’Inter di Mancini suona jazz ma non è un’orchestra e al suo interno ha un gruppo selezionato di solisti in grado di elevarne il livello delle esibizioni.
Non è un’orchestra perché non è organizzata come un’orchestra, perché il termine corale, quello che eleva il tutto a celestiali e divine interpretazioni, ad Appiano Gentile, non sanno nemmeno cosa significhi.
Hai voglia a parlare di spartiti da mandare a memoria, moduli, tempi e quant’altro: l’Inter di Roberto Mancini è una jam session, sincopata o compulsiva a seconda dei casi, semplicemente perché non conosce il termine canovaccio.
Il gioco espresso è assolutamente estemporaneo ed è figlio dei guizzi dei tanti solisti di cui la squadra è dotata.
Il termine inattendu, come direbbero i francesi che di jazz se ne intendono, rende al meglio l’assoluta estemporaneità che spezza l’equilibrio consolidato: un tiro a giro al 94′ batte l’Atalanta, un rigore abbatte i sogni del Carpi proprio sul filo di lana, un missile dalla distanza fa pendere l’ago della bilancia nel derby meneghino.
Siamo solo all’inizio, ma scardinare il concetto di squadra elevando il singolo a protagonista assoluto sembra essere tanto anarchico quanto romantico e altrettanto rischioso.
Sempre ammesso che anarchia e follia vadano di pari passo a ritmo di jazz.
1.Roberto Mancini
Charlie Parker, All the things you are
Talentuoso, meraviglioso, straordinario e terribilmente tormentato.
Questo è stato il Roberto Mancini calciatore, uno che con quel talento avrebbe meritato una carriera diversa.
Il Mancio è stato un grande incompiuto capace di magnifici colpi estemporanei e di lunghe pause.
(il primo goal mostrato nel video dalla sedici metri, lo ha segnato lui)
Da allenatore ha avuto la fortuna di far pesare il suo nome e la sua fama guadagnata negli anni in cui calcava le scene: non ha fatto gavetta nei campi polverosi di provincia, perché il Mancio e il suo ciuffo non avrebbero sopportato di non essere subito protagonisti.
Non ce ne voglia il Mancio, che abbiamo adorato all’ennesima potenza quando segnava e rifiniva in quel di Genova sponda Samp, ma le sue squadre non praticano un gioco spettacolare e indimenticabile.
Con l’Inter ha vinto tre scudetti grazie e soprattutto al fattore Ibrahimovic (e allo strapotere di una squadra molto fisica), con il Manchester City ha vinto uno storico titolo all’ultimo respiro e solo grazie alla differenza reti: a leggere i nomi di quella squadra, vengono i brividi, eppure quanta fatica…
L’inizio di questa stagione conforta la mia tesi: Jovetic (la perfetta nemesi di Mancini, in versione montenegrina) e Guarin hanno regalato 9 punti con giocate estemporanee e altrettanto decisive.
La sensazione è che il Mancio non sia né un grande inventore né un alchimista, ma piuttosto un classico allenatore italiano vecchio stampo, con un pizzico di anarchia e di lucida follia a mischiare le carte.
Anarchia, fantasia, talento e prima o poi un colpo di genio verrà in soccorso dell’allenatore jesino.
Quest’anno con la Juve in ambasce (+8 sugli eterni rivali di sempre, alla terza di campionato), un Milan in fase di ricostruzione, Roma e Lazio in crisi di identità, Napoli alle prese con una rivoluzione tattica, la strada appare meno impervia del previsto.
A meno che, la pazzia nerazzurra non la faccia ancora una volta da padrona e sparigli le carte in tavola come in quel famoso 5 maggio…
2.Stevan Jovetic
Dizzy Gilespie, Lisbon
Se il talento si potesse quantificare Stevan Jovetic avrebbe bisogno di un deposito grande quanto quello di Zio Paperone, per contenerlo tutto (e forse non basterebbe ancora).
Eppure questo giocatore dalla difficile collocazione tattica (prima o seconda punta?, trequartista?, ala sinistra?) non è ancora riuscito a trasformare il potenziale di cui il Dio del calcio lo ha abbondantemente rifornito, in qualcosa di tangibile e concreto.
Alla Fiorentina e al Partizan prima, ha mostrato numeri interessanti, poi a Manchester sponda Citizens, è entrato in un tunnel lungo due stagioni nelle quali ha sciorinato qualche lampo di classe, vinto un titolo, racimolato poche presenze, segnato pochi goal, subito troppi infortuni.
Il suo ritorno in Italia è visto con curiosità (io lo chiamo scetticismo) ma resto convinto che se dovesse mantenere le promesse, Jo-Jo è il classico giocatore che ti risolve le partite con un’invenzione, un virtuosismo totalmente improvvisato.
Se il numero 10 montenegrino ne risolvesse tante, potrebbe portare tanti punti praticamente da solo (sono 6 su 9 fino ad ora), se ne risolvesse poche, allora la questione titolo rischierebbe di allontanarsi pericolosamente perché, soprattutto in questo momento, Jovetic sembra uno dei pochi giocatori dell’Inter in grado di cambiare passo, inventare qualcosa, accendere la luce.
3.Felipe Melo
Thelonius Monk, ‘Round midnight
Uno così, uno come lui, volenti o nolenti, bisogna averlo.
Perché? Perché per vincere le partite hai bisogno del fioretto ma anche della spada, degli uomini che non hanno paura, che mettono piede, gamba e cuore. E forse anche qualcosa di più.
Bad boys, figli di buona donna, cattivi il giusto, irruenti.
Avere uno come lui in mezzo al campo paga, eccome. Se poi gliene affianchi altri due fisicamente prestanti come Kondogbia e Guarin tutto diventa più facile perché puoi permetterti di schierare là davanti Perisic, Jovetic e Icardi (anche se il croato conosce bene la fase di copertura).
Felipe Melo, fortemente voluto da Mancini, è l’uomo giusto al posto giusto.
Le precedenti esperienze italiane (Fiorentina e Juventus) gli hanno consegnato la fama di cattivo e l’esperienza turca (con il 10 sulle spalle) non ha fatto altro che acuirne le caratteristiche: giocare derby come quelli di Istanbul e sopravvivere, oltre a temprarti, ti fortifica.
Se a tutto questo aggiungiamo l’odio che il brasiliano di Volta Redonda ha dichiarato nei confronti degli eterni rivali bianconeri (paraculaggine o reale voglia di rivincita nei confronti di una piazza che non lo hai mai amato abbastanza?) allora il quadro è completo, perché sono bastate poche parole per farlo diventare un beniamino.
In ultimo il derby nel quale Melo si è fatto notare per qualche entrata ai limiti su un altro bad boy, Mario Balotelli: “Balotelli? È un campione, è troppo forte. Dovevo menarlo. Il calcio è così.”
Dal Vangelo secondo Felipe.
4.Samir Handanovic
Charles Mingus, Goddbye Pork Pie Hat
Ci sono portieri che fanno la differenza e Samir Handanovic è uno di quelli.
Recordmen (tra i portieri in attività) per rigori parati in serie A, 21 (secondo solo a Pagliuca che ne parò 24) il portiere sloveno è uno dei migliori nel suo ruolo a livello europeo (e perché no? mondiale).
In serie A non ce ne sono molti come lui e sicuramente il numero uno della selezione slovena è uno di quelli che grazie ai suoi interventi può portare punti pesanti nell’economia di un campionato.
Dinoccolato, alto e molto reattivo nonostante i suoi 193 centimetri, Samir potrebbe essere uno dei protagonisti della stagione nerazzurra.
Se la difesa lo proteggerà (l’anno scorso non fu così e subì 47 reti), lui aggiungerà il suo contributo: e se è vero che in Italia gli scudetti si vincono sopratutto in difesa e chi prende pochi goal spesso si laurea Campione, questa Inter mantenendo queste condizioni, può realmente dire la sua.
L’anno scorso dopo tre partite, l’Inter aveva subito solo un goal esattamente come quest’anno: poi alla quinta giornata giunse l’harakiri casalingo contro il Cagliari. Fu 1-4 e iniziò un declino che lo vide triste e incolpevole protagonista.
5.Mauro Icardi
Max Roach, Abbey Lincoln
Mea culpa, Maurito. Mea culpa.
Quando andasti via dalla Samp, non capii la tua fretta e la cifra spropositata che l’Inter spese per un pivellino che al primo anno di serie A, in sei mesi segnò 10 reti, così distribuite: 4 al derelitto Pescara, 3 alla Juve (di cui una all’ultima di campionato), 1 al Genoa, 1 alla Roma e 1 al Parma.
Insomma, mi sembrava che fossi il solito abbaglio della dirigenza interista e invece…
Invece dopo due stagioni sotto le insegne nerazzurre mi cospargo il capo di cenere: 31 reti in 60 partite, di cui 22 l’anno scorso in una di quelle annate storte che a Milano sponda nerazzurra conoscono fin troppo bene.
E anche se spesso si parla più del gossip legato alla sua storia d’amore con Wanda Nara (ex del Galina Maxi Lopez) che non delle sue doti sportive, Mauro Icardi è un centravanti in grado di andare in doppia cifra e, potenzialmente, di laurearsi capocannoniere: una squadra che vince, generalmente ha un bomber che segna a ripetizione.
Ricordiamo sempre che stiamo parlando di un classe 1993. Quanti giocatori hanno questo pedigree, questa sfacciataggine e questo senso del goal, il tutto ad un’età ancora così verde?
Dopo tre partite l’Inter è a punteggio pieno.
Un inizio di campionato bizzarro quello a cavallo di fine estate, con la finestra di mercato ancora aperta, un calcio fatto di equilibri ancor più fragili del solito, con il Chievo primo in classifica e la Juve ferma ad 1 punto in tre partite.
Nella roulette russa degli ultimi campionati, dove di fatto l’unica certezza era la squadra che si laureava campione, si può tentare il rischioso all-in: cambiare rivoluzionando tre quarti di difesa, due terzi di centrocampo e due terzi di attacco, per un totale di 7/11 di nuovi potenziali titolari.
A Mancini e alla sua banda auguriamo di non incorrere in quel blue* che ha caratterizzato molte delle ultime stagioni interiste, consapevoli che riportare il tricolore a Milano sarà molto arduo, soprattutto se gli interpreti che abbiamo appena incontrato dovessero steccare i concerti minori e non saranno in grado di fare la differenza negli spettacoli più prestigiosi.
Per il momento Mancini può godersi il primo posto, può gestire al meglio forze e uomini, anche soprattutto dal punto di vista psicologico: giocare una sola partita a settimana deve essere un fattore determinante e un vantaggio da sfruttare assolutamente.
Il significato dell’aggettivo inglese blue è connesso all’associazione tra il colore blu e un senso di nostalgia e tristezza tipico della musica afro-americana.