Perché avrei dovuto smettere?

Intervista a Simona Sodini, calciatrice e madre.

Il comune di Pianezza si trova nell’area metropolitana di Torino, a circa 15 chilometri dal centro. Sul cancello d’ingresso granata del campo sportivo campeggia un’insegna: Torino Calcio Femminile. Fondato nel 1981 dalle ceneri della storica società Virgilio Maroso, la squadra ha ereditato i colori e il simbolo glorioso dell’AC Torino maschile nel 1985, quando riuscì ad approdare in Serie A, dopo una rapida scalata partita dalla Serie D e durata appena quattro anni. 

Nel massimo campionato il Torino Calcio Femminile ci è rimasto per ventisette anni consecutivi, mettendo insieme record importanti e un vivaio capace di sfornare talenti a ripetizione (Barbara Bonansea è cresciuta qui, per fare uno dei nomi più conosciuti), rimanendo l’ultima società a non essere mai retrocessa dalla massima divisione fino al 2013. Oggi disputa il campionato di Serie C, con voglia e ambizione di risalire.

Della sua storia fa parte anche, e soprattutto, Simona Sodini che con la maglia granata ha disputato oltre duecento partite e segnato centodieci reti in tre diversi fasi. Prima tra il 2002 e il 2005, poi tra il 2007 e il 2012 e infine il ritorno nella scorsa stagione. La incontro proprio nel centro sportivo dove si allena il Torino femminile: «Sono ferma per un fastidio al ginocchio e non sai quanto mi girano le scatole. Stare fuori e non poter giocare è veramente frustrante».

La voglia di giocare a pallone

Sin dalle prime battute resto colpito dal suo modo quasi fanciullesco di intendere il calcio: l’aspetto ludico, il pallone, il divertimento. I primi ricordi sono legati alle reazioni e ai sentimenti contrastanti dei suoi genitori. «Papà e mamma hanno avuto un approccio nettamente diverso al calcio. Mentre papà mi ha assecondato, mamma ha cercato di dissuadermi, sin dall’inizio. Prima di tutto perché giocavo a pallone in casa e distruggevo troppe cose. Per questo motivo ad un certo punto ha cominciato a bucarmi i palloni. Aggiungi la solita retorica che accompagna tutte le bambine che vogliono giocare: “il calcio non è sport per signorine”. Poi, quando sono partita dalla Sardegna, mamma è stata la mia prima tifosa».

Le mie curiosità sono però rivolte soprattutto al presente. Simona è diventata mamma per la seconda volta, ha una famiglia, una carriera di livello alle spalle e voglio scoprire che cosa la spinga a continuare, soprattutto in una categoria non propriamente di primo livello come la Serie C. «Il calcio è stato da sempre la mia grande passione. Sin da bambina. Mi è sempre piaciuto giocare. Il mio gioco preferito era una palla». Non c’è un solo momento in tutta l’intervista in cui non mi sia apparsa evidente, quasi fisicamente, la grande passione di Simona per questo gioco, l’amore per il pallone che trasmette anche solo mentre guarda le sue compagne allenarsi, mentre le segue con lo sguardo.

Tutto ritorna in una immagine che mi racconta e che la dice lunga sulla sua determinazione,: «Ancora oggi quando mi allaccio le scarpe, ripenso a me bambina, mi guardo indietro e penso che per quanto mi riguarda, non è cambiato nulla. Dopo aver partorito per la seconda volta mi è tornata la voglia di giocare, di allenarmi proprio come quando avevo vent’anni. Perché avrei dovuto smettere? Ogni tanto mi capita di vedere ragazze più giovani che non hanno la passione che ho io e non me ne capacito».

Quasi duecentocinquanta gol segnati in giro per l’Italia e un ritorno al Torino dopo anni di peregrinazioni e un passaggio, tra gli altri, sulla sponda juventina. «Sono tornata a giocare qui per tutta una serie di motivi. Innanzitutto perché il Toro mi ha dato tanto e quando è stato il momento di decidere ho pensato che questa fosse casa mia, il posto dove ho vissuto le mie annate migliori. Poi ho dovuto conciliare la mia scelta professionale con quella famigliare. Non è stato facile scendere di categoria, ma sarebbe stato altrettanto difficile ripartire in serie A, cambiando città, ricominciando da capo ancora una volta».

Ci sediamo in panchina mentre le compagne di squadra aumentano il ritmo degli allenamenti, guidate dall’allenatore Gianluca Petruzzelli. Sodini mi racconta dei suoi trascorsi in giro per l’Italia, ma nelle sue parole non c’è rimpianto, non c’è spazio per la malinconia. Una dozzina di anni fa le sirene del campionato spagnolo provarono a convincerla e, più dei rimorsi, adesso c’è la curiosità per quel what if che avrebbe potuto farle cambiare il corso della sua carriera.

Lei però parla esclusivamente di aspetti legati al gioco, al campo, l’idea di misurarsi con altre calciatrici, l’atmosfera di un campionato diverso, i possibili miglioramenti tecnico-tattici. Sono curioso di conoscere quali sono i suoi modelli, le sue squadre preferite, i giocatori e le giocatrici che segue maggiormente. Lei che è un attaccante molto atletica, per dire.

«Io sono nata con il mito di Maradona. Adesso amo Messi. Sono due fenomeni, i migliori fantasisti di tutti i tempi per estro, genialità, per i gol, ma soprattutto per gli assist. Io ho fatto tanti gol ma far segnare una compagna è davvero gratificante. Tra le calciatrici italiane devo essere sincera non ho mai tratto spunto da nessuno. Non mi rivedevo nelle movenze di Vignotto o Morace. Forse perché siamo giocatrici differenti per caratteristiche, per struttura fisica, per il modo di intendere il calcio. All’estero mi piace come gioca il Lione e ultimamente anche il Barcellona mi diverte tanto. Tra gli uomini invece mi piace la mentalità della Juventus».

Il movimento

Le chiedo cosa pensa del “movimento italiano”, dello sforzo fatto negli ultimi anni per trovare un posto al sole anche al calcio femminile. «Il movimento italiano è indietro di parecchi anni rispetto alle esperienze europee ed internazionali. Gli altri hanno iniziato prima di noi, hanno messo al bando i luoghi comuni, hanno fatto progetti, hanno coinvolto la scuola e supportano maggiormente le scelte di chi si avvicina al calcio». I riferimenti sono sempre quelli, la strada da seguire esiste: «Germania, Francia, nord Europa, Stati Uniti sono esempi virtuosi. In alcuni paesi le calciatrici sono professioniste, c’è grande seguito di pubblico sia per i campionati che per le squadre nazionali. Le federazioni stanziano tanti soldi. Da noi si sta muovendo qualcosa adesso, grazie ad alcune società e alla nazionale».

Quando pronuncia la parola Nazionale, il tono di voce si fa più serio. Si intuisce che qualcosa è rimasto lì, sospeso. Sulla maglia azzurra risponde in maniera diretta: «è sicuramente la mia più grande delusione. Ho giocato in tutte le squadre giovanili mentre in Nazionale A ho raccolto molto poco (3 presenze in totale, nda). Sono stata sfortunata. La verità è che non mi hanno mai considerata a dovere, anche quando segnavo a ripetizione sono sempre stata una seconda scelta, eppure non mi sono abbattuta e ho sempre lottato per meritarmi quella maglia». 

Sono gli anni più difficili per il calcio femminile in Italia che deve combattere contro arretratezza culturale, sessismo e maschilismo. Oggi, per fortuna, qualcosa sta cambiando: il passaggio da dilettanti a professioniste è quasi realtà. La legge 91/1981 è stata parzialmente superata con un emendamento che prevede contributi statali, del 100%, per le società che tessereranno atlete e che saranno esonerate per tre anni dal pagamento dei contributi. Un primo passo è stato compiuto e adesso toccherà alle Federazioni chiudere il cerchio per restituire dignità e pari trattamento non solo alle calciatrici, ma a tutto lo sport femminile italiano.

Il calcio femminile è da sempre un esperanto sportivo. Gli appassionati lo paragonano a quello maschile ed è questa la sfida più grande: riuscire a scardinare il modo di pensare, vivere, parlare e raccontare il calcio delle donne. «Le cose miglioreranno, ne sono sicura. In tutti gli ambiti. Dal punto di vista tecnico e tattico siamo alla pari con gli uomini e anche le modalità di allenamento in questi anni sono notevolmente migliorate. Bisogna entrare nel quotidiano degli sportivi. Dobbiamo uscire da questa nicchia. Un aiuto è arrivato dalle squadre di serie A maschile, con l’obbligo di avere una sezione femminile. Le televisioni e i media stanno facendo molto, ma possono dare ancora di più in termini di visibilità. Ovviamente più attenzione significa più sponsor e, di riflesso, più soldi».

Ma i problemi e le differenze non sono solo a livello tecnico e Sodini non ha problemi a sottolineare le discriminazioni che da sempre accompagnano le calciatrici: «sono consapevole delle difficoltà che molte mie colleghe vivono a causa del loro orientamento sessuale. Ma è una questione culturale da combattere e da vincere. Nel calcio femminile ci sono ancora troppe barriere, troppi pregiudizi, troppi stereotipi».

La normalizzazione dovrebbe passare anche attraverso delle battaglie culturali, tipo quelle che stanno portando avanti alcune delle calciatrici più celebri, soprattutto negli Stati Uniti: parità di trattamento, equal pay, lotta alle diseguaglianze. Proprio Sodini ha toccato con mano le difficoltà di un mondo che non mette ancora al centro le proprie atlete. Quando era a Cuneo, all’epoca della prima gravidanza, le saltò il contratto da un giorno all’altro.

«Ero felicissima, perché diventare mamma è una cosa straordinaria. Poi da un giorno all’altro mi annullarono il contratto. Non mi sono sentita tutelata, è stata una grande delusione anche perché allora non c’erano garanzie». Stavolta nell’attesa del suo secondo figlio, Simona ha potuto usufruire di un fondo di maternità grazie anche al lavoro di Katia Serra, ex calciatrice e ora responsabile AIC per il calcio femminile. Insomma la calciatrice del Torino è un esempio di come, lentamente, le cose stanno cambiando, stanno migliorando. Ed è proprio grazie ad atlete come lei, che davanti alla difficoltà ha continuato ad andare avanti, lavorare duramente per cambiare le cose dall’interno. Come lei tante altre calciatrici, che raccontano storie simili, di sacrifici e delusioni, ma che oggi possono guardare al futuro con speranza.

Cosa c’è nel futuro

Torna per un attimo a parlare di Nazionale e della gioia provata durante la scorsa estate nel vedere le sue colleghe impegnate nei mondiali. «Sono stata contentissima per loro, innanzitutto perché conosco la maggior parte di loro. Con alcune giochiamo insieme sin da ragazzine e tante sono cresciute qui. E poi era bello sentir parlare di calcio femminile. Sembrava, come dire…una cosa normale. Ed è stata una bella soddisfazione accendere la televisione, leggere i giornali, sentir chiacchierare la gente per strada. Finalmente esiste lo status di calciatrice. Non sai quante volte ho detto “gioco a calcio” e la gente mi ha risposto: ma va? Davvero?»

Sodini ha le idee chiare. Si capisce da come parla, come spiega le cose andando dritta al punto. Le chiedo quale sarà il suo futuro, se a 37 anni ha ancora voglia di continuare a giocare o se sta pensando al “dopo”: «Il calcio oltre ad essere una passione è sempre stata la mia unica occupazione. Non ho mai lavorato in altri ambiti. Allenare? Non se ne parla. Mi hanno offerto una panchina per allenare gli uomini, qua in provincia di Torino. Poi ho anche provato ad allenare i bambini, ma non sono portata, non fa per me. Io sono una donna di campo. Per me il calcio è un gioco bellissimo e non vedo altro ruolo per me, al di fuori di quello di giocatrice. Mi piacerebbe parlare di calcio, questo sì, magari in qualche trasmissione televisiva. Vedremo cosa succederà l’anno prossimo. Per il momento vivo alla giornata, magari l’anno prossimo scopro che non ho più voglia di giocare e smetto».

Tra novembre e dicembre il Torino Femminile ha messo il turbo, inanellando vittorie importanti, come nel derby vinto contro l’ASD Femminile Juventus Torino, e il successo raccolto sul campo della capolista Biellese. Al suo ritorno in campo, nell’acquitrino di Biella, Sodini ha messo la sua firma, con un gol da trenta metri di sinistro sotto la traversa, un gol di potenza ed estro a cui ha fatto seguito la tripletta contro il malcapitato Caprera. Poi, prima di Natale, ancora una tripletta al Parma, con una rete di testa in tuffo.

Gol che ci dicono che Sodini è ancora lì, a lottare, a segnare, a giocare con la stessa voglia di sempre. Se il calcio femminile sta provando a trovare una sua definizione, giuridica ed emotiva, l’attaccamento di giocatrici come lei è il modo migliore per abbattere delle barriere che esistono solo nella nostra testa.

L’intervista è stata pubblicata in anteprima da Ultimo Uomo

Pubblicato da Danilo Baccarani

Di Torino, amante di calcio e sport, laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Se rinascessi vorrei la voleè di McEnroe e l'impermeabile di Bogart, ché non si sa mai.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: