Questa non è solo la storia di un grande calciatore. Questo non è solo l’elogio della classe, del talento e dell’anarchia ma è anche la storia della socialdemocrazia del pallone. Questa è la storia di una nazionale che non vince nonostante la presenza del suo fuoriclasse più grande. Questa è: la crisi al tempo del Fuoriclasse.
Abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà.
Ingmar Bergman
L’inizio di questa storia racconta che il piccolo Zlatan non aveva neppure compiuto un anno e a circa trecento chilometri da casa sua si festeggiava uno evento storico. Zlatan, è ovviamente Zlatan Ibrahimovic e la prima notizia di questa storia è che anche Ibra è stato bambino. A Göteborg, in una fresca serata della primavera del 1982 stava andando in scena la finale di Coppa UEFA tra i padroni di casa dell’IFK Goteborg e i tedeschi dell’Amburgo.
Fino a quel punto, il risultato raggiunto dalla squadra scandinava assomigliava molto ad un piccolo, grande miracolo, costellato di vittime illustri, in un vero e proprio crescendo rossiniano: Haka, Sturm Graz, Dinamo Bucarest, Valencia, Kaiserslautern e infine il temibile Amburgo, che giusto un anno dopo si sarebbe laureato campione d’Europa, vincendo la finale di Coppa dei Campioni contro la Juventus. L’aleatorio 1-0 della gara d’andata sembra insufficiente a dare respiro alle velleità svedesi. I tedeschi dal canto loro sono convinti, ma talmente convinti di farcela, che al Volksparkstadion il pubblico sventola le bandiere con la scritta Amburgo vincitore della Coppa UEFA. I tedeschi sono sempre convinti di qualcosa fino a quando non arriva qualcuno o qualcosa a fargli capire che proprio non è aria. Torneremo più avanti a parlare di quanto accadrà quella sera al Volksparkstadion.
L’IFK Goteborg, allenato da un giovane mister, tale Sven-Goran Eriksson, era una squadra di semiprofessionisti.
La filosofia del club prevedeva che tutti i giocatori avessero un lavoro: Tommy Holmgren, per citarne uno, faceva il pompiere e il solo Nilsson, il centravanti goleador, non aveva un’altra occupazione. L’IFK Goteborg, nell’idea del suo presidente Gunnar Larsson, doveva essere un esempio perfetto di socialdemocrazia e cosa altro visto che quella squadra era legata a doppio filo con il Premier Olof Palme e il suo presidente altri non era che l’assessore all’urbanistica della città di Goteborg. La Svezia era tornata ad essere un paese socialdemocratico dopo la parentesi centrista e l’IFK Goteborg divenne un simbolo per tutto il paese. In campo tutto funzionava a meraviglia. Eriksson portò in bacheca due campionati, due coppe di Svezia e una Coppa UEFA, il tutto accompagnato da un calcio spettacolare, redditizio, votato all’attacco, con il grande merito di essere giocato da semiprofessionisti. Fuori dal campo però, a causa della dissennata gestione, precedente a quella di Larsson, il club rischiava il fallimento. Proprio a Valencia, durante la semifinale di ritorno di quella edizione di UEFA, gli svedesi convinsero un giornalista loro connazionale a spacciarsi come vice-presidente del club per avere un’immagine più seria. La trasferta, ai giocatori, la dovettero pagare i tifosi con una colletta. Nel ritorno della doppia finale, ad Amburgo, finì con un roboante 3-0 per gli svedesi. Ecco la formazione di quella che è tuttora l’unica squadra svedese ad aver conquistato un trofeo continentale:
Wernersson, Svensson, Hysén, Karlsson(c), Fredriksson, Tord Holmgren, Carlsson, Strömberg, Corneliusson, T. Nilsson, Tommy Holmgren
Il terzino sinistro era Ruben Svensson, il Rosso (per le sue idee comuniste), vero e proprio leader politico della squadra che non esitò ad interpretare quelle vittorie come vittorie politiche.
Con Sven-Goran Eriksson facevamo calcio di sinistra. Costruivamo tutto insieme, da vera squadra. La sua filosofia si basava sul fatto che ci sia sempre qualcuno dietro di te a guardarti le spalle. L’importante è il collettivo, l’individuo deve rimanere in secondo piano.
Ruben Svensson
Nel 1984-85 gli svedesi approdarono ai quarti di Coppa dei Campioni, con lo strabiliante 17-0 totale (8-0; 9-0) rifilato ai malcapitati lussemburghesi dell’Avenir Beggen e laurearono capocannoniere il solito Nilsson (insieme a Platini). Andò ancora meglio l’anno successivo, quando l’IFK raggiunse le semifinali di Coppa dei Campioni eliminato solo ai rigori dal Barcellona, dopo il prodigioso 3-0 dell’andata. A Barcellona i blaugrana pareggiarono i conti e trascinarono la finale oltre al 120′, ma la notte catalana resta avvolta da chiacchiere e mistero. L’arbitro italiano Casarin venne accusato di essere stato corrotto (annullò due reti agli scandinavi) e il capo della sicurezza dell’albergo dove alloggiavano gli svedesi riferì, anni dopo, di un andirivieni di allegre signorine utilizzate per avvelenare i calciatori del Goteborg… Letteratura a parte, il Goteborg venne eliminato, ma nonostante questo Nilsson si confermò ancora una volta bomber della manifestazione. Quel Goteborg fu il traino ai buoni risultati della nazionale svedese che iniziò a seminare i frutti di un raccolto che sarebbe stato copioso a metà degli anni Novanta con la semifinale agli Europei del 1992 e il terzo posto ai Mondiali americani del 1994 con Ravelli, Brolin, Larsson e Kenneth Andersson. Li incontrammo parecchie volte. Ci fecero male nelle qualificazioni a Euro84, per ben due volte: ci umiliarono a Napoli per 3-0. Eravamo campioni del mondo, facemmo 5 punti in 10 partite e gli Europei di Francia li guardammo dalla poltrona.
Dopo tanti anni di successi e di buoni risultati, il calcio svedese sta venendo fuori lentamente da un momento di stanca. Cosa è successo? È calata la notte, proprio come in un film di Bergman. Aggrappato al suo totem Ibrahimovic, il movimento scandinavo sembra incapace di reagire nonostante la vittoria nel Campionato Europeo Under21 conquistata nel 2015. La massima divisione svedese, l’AllSvenskan, continua ad essere un campionato di semiprofessionisti, poco allenante e qualitativamente modesto: dei 23 convocati a Euro2016 solo Lewicki e Kujovic giocano in squadre locali e solo cinque appartengono all’Under21. Così, nel freddo dell’inverno del calcio svedese, Zlatan (che di svedese ha poco o niente) è diventato quello che gli amanti della boxe chiamano la speranza bianca, l’uomo della Provvidenza, il fenomeno in grado di decidere partite e successi tutto da solo. In parte è stato così. Zlatan Ibrahimovic è stato questo. Caratteraccio da bullo di periferia, genio e classe: uno svedese atipico.
Il più grande calciatore svedese di sempre è nato e cresciuto nel periodo sbagliato e, di fatto, il suo valore aggiunto non è stato sufficiente a trascinare un intero movimento ad alcun successo.
Ibrahimovic è universalmente riconosciuto come un calciatore in grado di decidere partite in serie e di vincere campionati praticamente da solo. Ma con la nazionale no. Non è stato possibile. Ibra non è uno qualunque, non lo è mai stato e mai lo sarà. Ibra è la summa di una serie di fattori: il talento smisurato, la forza fisica, la classe, la tenacia, il carattere.
È Mohammed Alì che fa il bullo durante le interviste.
È Valentino Rossi che sbeffeggia Biaggi e i suoi secondi posti.
È Merckx che vuole stravincere anche i traguardi volanti.
È Dio, come spesso ama ripetere, sceso in terra con un quarantasette di piede.
Geniale, istrionico, folle, anarchico, irriverente.
Oggi ce lo troviamo di nuovo contro in una partita di un Europeo, proprio come nel 2004: Ibra ci ferì con un goal immaginifico, di tacco, sugli sviluppi di un calcio d’angolo e il colpo di grazia ce lo diedero lui e i suoi compagni con un pareggio contro la Danimarca, in una partita che tuttora viene ricordata con il nome di “biscotto”. Venimmo eliminati. Basterebbe questo per poter parlare di vendetta sportiva.
Anche questa volta, il match cade come secondo impegno del girone ma la prospettiva e i chiari di luna sembrano leggermente diversa. Vuoi perché, nella prima uscita contro l’Irlanda, questa Svezia non è parsa una squadra particolarmente ostica. Gioco monocorde, lento e prevedibile, interpreti poco talentuosi e soprattutto, fatto strano per una squadra nordica, poca organizzazione. 4-4-2 di stampo anglosassone mentre Hamren sta già pensando a qualche ritocco rispetto alla prima uscita, con Johansson che insidia Lustig e Guidetti che sembra in leggero vantaggio su Berg. Ibrahimovic nella prima partita contro l’Irlanda non è sembrato particolarmente ispirato. Attenzione però alla sua voglia di dimostrare che ancora una volta il migliore è lui. In Italia ha cambiato maglia tre volte: Juve, Inter e Milan, lasciando orfani i suoi tifosi, conosce bene il nostro calcio e sa che questa è la sua grande occasione. L’ennesima, forse l’ultima, di una carriera internazionale che avrebbe meritato qualche successo in più. Arginarne la forza, isolandolo, sembra essere l’unica via verso la soluzione del rebus svedese. Inutile dirlo, è lui l’unico in grado di tirare fuori da questo freddo inverno la sua nazionale.
Questo articolo è stato pubblicato da Contropiede.net