Siete proprio abituati alle vostre schifezze.
Ogni volta noi pensiamo che voi italiani finalmente avete toccato il fondo…
e invece no. State lì e scavate. Scavate. Scavate e andate ancora più giù. Più giù.
Raschiate.Jerzy Stuhr, regista e attore polacco. Citazione da Il Caimano di Nanni Moretti
Dove sta andando il calcio italiano? A guardare i risultati dei nostri club in Europa e della nostra nazionale, il bicchiere sembrerebbe mezzo pieno e potremmo tranquillamente certificare che le cose stanno andando per il verso giusto. A ripensare a Roma-Juventus di lunedì scorso, invece, c’è da rabbrividire: se questo è il meglio che il nostro calcio può offrire, direi che il malato è ancora debilitato, nonostante qualche sussulto d’orgoglio (vedasi l’en plein in Europa League). Certo, la stagione non è finita, la nazionale deve ancora conquistare il suo posto per Euro 2016 e i nostri club hanno ancora parecchia strada da compiere per raggiungere un risultato di prestigio che manca da cinque anni, ovvero dalla finale di Champions di Madrid vinta dall’Inter di Mourinho. Intendiamoci, quella squadra di italiano aveva ben poco (in rosa c’erano Materazzi, Santon, Motta, Balotelli, Orlandoni e un giovanissimo Destro) ma tant’è, da lì i nostri club non ne hanno azzeccata mezza con tanti saluti al ranking UEFA e al campionato più bello del mondo. Tra la vittoria dell’Inter e quella precedente (Milan, 2007) di anni ne passarono tre, mentre quattro anni prima maturò la vittoria milanista nella finale tutta azzurra del 2003 (Milan-Juve).
Sono lontani gli anni Novanta, con il dominio pressoché costante in tutte e tre le competizioni (c’era ancora la Coppa delle Coppe), con la nazionale in grado di essere all’altezza del suo blasone: la finale mondiale persa nel 1994, la dolorosa finale europea del 2000 e la vittoria del 2006 in Germania testimoniano una certa continuità, seppur intervallata da beffarde eliminazioni. Oggi invece siamo in una risacca dovuta a gravi problematiche strutturali. Innanzitutto la nostra serie A è diventato un torneo poco allenante e piuttosto scarso qualitativamente. La nostra Federazione non sembra in grado di trovare la medicina giusta per risollevare un intero movimento e l’appeal economico di un campionato livellato sì, ma verso il basso. La recente elezione di Tavecchio (non ce ne voglia presidente, ma non nutriamo grande fiducia in Lei) e le polemiche legate all’affaire Parma (nonché all’affaire Carpi, a quelle sugli stage azzurri, alle battute penose sui Pobbà di turno, ecc…), non fanno altro che alzare in maniera esponenziale l’asticella delle difficoltà incontrate dai nostri dirigenti nel gestire lo sport più seguito dagli italiani. Campionato pessimo e giocato da troppe squadre (20 non ce le possiamo permettere) e Coppa Italia gestita in maniera folle e cervellotica: perché giocare in casa della miglior classificata nella stagione precedente? Perché non coinvolgere anche le serie minori (in stile FA Cup) permettendo alle piccole società di fare incassi importanti? In questo caso si nobiliterebbe un trofeo che viene snobbato da tutti e che diventa di colpo importante dalle semifinali in avanti.
Sul tavolo delle riforme, gli addetti ai lavori chiedono a gran voce una restaurazione dell’intero mondo pallonaro: campionati più snelli, meno retrocessioni e meno promozioni (un rischio e un controsenso non attuabile perché culturalmente avverso alla logica italiana). In un momento così delicato la mannaia del caso Parma amplifica le crepe di un sistema sempre più debole. Il fallimento della squadra ducale spaventa un po’ tutti. In primo luogo perché si crea un pericoloso precedente (anche se Lanciano, Pescara, Ascoli e Bari fecero ovviamente meno notizia) che la Lega non sa come gestire. A nostro modesto avviso, la Lega, oltre a prevenire eventi di questo genere, dovrebbe garantire in prima persona lo svolgimento regolare dei campionati facendo in modo che il Parma giochi le restanti partite da qui a maggio. Chi doveva controllare non lo ha fatto (o lo ha fatto male) ma è incredibile che la situazione non sia ancora stata risolta dall’intervento degli organi competenti. Ora qualcosa sembra muoversi, ma i fatti sono ancora lontani dal vedersi. L’immobilismo e il silenzio dei protagonisti ducali non ha giovato di certo e sarebbe stata auspicabile una presa di posizione più celere: oramai i buoi sono scappati (leggasi colpevoli) e chi pagherà saranno soltanto dipendenti della società, tifosi e creditori. La situazione del Parma sta diventando grottesca e nemmeno di fronte a due cessioni a breve giro di posta, nessuno ha avuto il minimo sospetto che lì, a Parma, si stava compiendo una frode. Quantomeno incredibile. Il delitto perfetto è stato compiuto: l’assenza di un colpevole, la presenza di un cadavere. C’è tutto. Mistero e omissioni comprese. Basterà aspettare per vedere il finale (scontato?).
Sempre più ostaggio delle tv, il nostro calcio è lontano anni luce dalle federazioni europee che sono leader riconosciute, ovvero Germania e Inghilterra. La nona industria italiana per fatturato è un gigante dai piedi di argilla: incapace di promuoversi e vendere un brand riconoscibile e riconosciuto, distante dai suoi clienti (i tifosi) e dai loro bisogni. Oramai lo spezzatino è la pietanza (indigesta) a cui è abituato il tifoso italiano. Va in scena dal venerdì al lunedì ad orari sempre diversi, ingarbugliando i fine settimana di molte famiglie, minando le agende dei più, costringendo gli spettatori a vere e proprie gimkane attraverso le strettissime maglie di un calendario fitto di impegni. Il nostro pallone è schiavo di leggi cervellotiche (vedi tessera del tifoso) che allontanano la gente dagli stadi e non risolvono nemmeno uno dei tanti problemi legati alla sicurezza, emarginando le parti sane del tifo, costringendo gli utenti a districarsi in una giungla fatta di rivenditori on-line, modalità differenti da società a società nell’acquisto dei biglietti, costi supplementari, code infinite, disinformazione e decisioni in extremis di prefetti e sindaci che non fanno altro che aumentare le già tante difficoltà presenti.
In ultima battuta, il caro biglietti e gli impianti inadeguati alla fruizione di uno spettacolo: decadenti, di proprietà dei comuni (ma perché non devono essere di proprietà delle società?), insicuri e praticamente vuoti al contrario di quelli tedeschi e inglesi. Per intenderci, ecco le presenze medie della stagione 2013/14 negli stadi dei principali campionati europei:
Bundesliga (Ger) 43.500 spettatori
Premier (Ing) 36.631 spettatori
Liga (Spa) 26.843 spettatori
Serie A 23.385 spettatori
Ligue1 (Fra) 20.965 spettatori
Eredivisie (Ola) 19.557 spettatori
Jupiler League (Bel) 11.781 spettatori
Liga Nos (Por) 10.238 spettatori
(Fonte: http://www.worldfootball.net)
L’analisi è ampia. Ma ci proviamo. Partiamo dal lato tecnico. Dove sono finiti i nostri vivai, fiore all’occhiello delle nostre squadre, soprattutto quelle di provincia? Tanto per cominciare, in Italia nessuno è obbligato a destinare parte del fatturato al settore giovanile, cosa che all’estero puntualmente accade. Se servono punti di partenza, eccone uno. Il calcio non si insegna più e già in età scolara, molti allenatori privilegiano un pericolosissimo indottrinamento tattico, fatto di movimenti, lezioni esasperate, dimenticando il pallone e la confidenza con lo stesso. Si tralasciano divertimento e tecnica. Proviamo ad elencare quanti difensori oggi, sanno impostare il gioco in maniera efficace: i nomi li contiamo sulle dita di una mano e il ricordo va inevitabilmente ai malinconici Anni Ottanta, nei quali si poteva assistere alle uscite palla al piede di Scirea, Gentile, Bergomi, Collovati, Righetti e tanti altri. Le società preferiscono comperare il prodotto finito, piuttosto che investire sui giovani: sembra una follia. E, infatti, lo è.
Siamo quintultimi in Europa per giocatori portati dalla Primavera in prima squadra: 0,3 a club. Abbiamo il campionato con l’età media più alta: 26.9 anni, a pari merito con l’Inghilterra. Ecco l’età media dei calciatori nei principali campionati europei (per la stagione in corso):
26,9 Serie A – Italia
26,9 Premier League –Inghilterra
26,2 Liga – Spagna
25,3 Ligue1- Francia
25,1 Bundesliga – Germania
25,1 Liga Nos – Portogallo
24,2 Jupiler – Belgio
23,4 Eredivisie – Olanda
(Fonte: Transfertmarkt, 2015)
Solo la Turchia ha prime squadre meno legate al vivaio: in Italia solo il 9,7% dei calciatori di A hanno giocato per tre stagioni nel club tra i 15 e i 21 anni. Tra le soluzioni di cui si sente spesso parlare (e che in Europa vanno per la maggiore) c’è anche l’eliminazione del campionato Primavera e l’istituzione delle cosiddette squadre B. Il campionato giovanile rischia di essere un’arma a doppio taglio per i nostri futuri campioni costretti a confrontarsi solo con pari età, senza poter affrontare le malizie di un campionato che di fatto potrebbe farli crescere molto più in fretta. L’ostacolo viene posto quasi esclusivamente dalle Leghe minori, che non vedrebbero di buon occhio l’invasione delle grandi squadre all’interno dei loro campionati: immaginiamo Macalli che prova a giustificare un Milan B-Pordenone alle sue affiliate. Qui il modello da copiare sarebbe quello spagnolo, con le squadre B impossibilitate a giocare nello stesso campionato della squadra A (Es. Il Real B non potrà mai giocare in Liga) grazie a regole che bloccano l’eventuale promozione nel campionato maggiore.
I ragazzi giocherebbero, le nazionali giovanili avrebbero qualche vantaggio in più e in prospettiva anche quella maggiore si ritroverebbe con calciatori più esperti nonostante la verde età. Ma soprattutto, sarebbe meglio evitare lo scempio di società fantasma sull’orlo del fallimento che a gennaio mandano in campo gli allievi perché impossibilitate a pagare gli stipendi. Meno squadre, meno ripescaggi, meno penalizzazioni, qualche incasso interessante (magari al Pordenone giocare contro il Milan B non dispiacerebbe), conti in equilibrio: è utopia? Diamo uno sguardo a qualche numero per inquadrare la situazione.
Età media serie A: 26.9
Squadra più giovane: Cagliari 24.9
Squadra più vecchia: Atalanta 29.4
304 stranieri su 554 giocatori (54.87%)
Squadra con meno stranieri: Sassuolo 6
Squadra con più stranieri: Lazio 24
(Fonte: Transfertmarkt, 2015)
Quanti giovanotti di belle speranze abbiamo in prospettiva nazionale? Nelle rose della nostra serie A quanti sono i nati negli anni Novanta?* Beh, diciamo che le cose non vanno benissimo perché sui 554 giocatori della massima serie, ci sono solo 61 italiani nati dal 1990 in poi (11%). Il gruppo più numeroso è composto dai nati nel 1991 (forse i più interessanti), ma pochissimi sono i titolari inamovibili, mentre la maggior parte fa la spola tra campo e panchina e molti sono panchinari fissi. Ecco l’elenco completo da cui sono stati eliminati i giocatori con doppio passaporto (Es. Jorginho, Dybala):
1990 (6):
Tabanelli (Cesena)
Seculin (Chievo) e Paloschi (Chievo)
Tonelli (Empoli)
Regini (Samp)
Marrone (Juventus)
1991 (19)
Insigne L. e Gabbiadini (Napoli)
Sansone N. e Zaza (Sassuolo)
Bertolacci (Genoa);
Santon (Inter)
Florenzi (Roma)
Soriano (Samp)
Albertazzi e Destro (Milan)
Belotti (Palermo)
Sepe, Saponara e Pucciarelli (Empoli)
Sala (H.Verona)
D’Alessandro (Atalanta)
Colombi e Capuano (Cagliari)
Iacobucci (Parma)
1992 (14):
Sportiello, Baselli e Zappacosta (Atalanta)
El Shaarawy e De Sciglio (Milan)
Perin e Izzo (Genoa)
Bardi (Chievo)
Benedetti e Longo (Cagliari)
Rizzo (Samp)
Antei (Sassuolo)
Verdi (Empoli)
Biraghi (Chievo)
1993 (4):
Crisetig (Cagliari)
Leali (Cesena)
Barba (Empoli)
Sturaro (Juventus)
1994 (8):
Benassi (Torino)
D.Berardi (Sassuolo)
Rugani (Empoli)
Cataldi (Lazio)
Bernardeschi (Fiorentina)
Rosseti (Atalanta)
Cragno e Murru (Cagliari)
1995 (4):
Gollini (H.Verona)
Romagnoli (Samp)
Somma (Empoli)
Mattiello (Chievo)
1996 (2):
Scuffet (Udinese)
Verde (Roma)
1997 (3):
Bonazzoli (Inter)
Mandragora (Genoa)
Meret (Udinese)
Se poi consideriamo che a togliere spazio ai nostri giocatori sono mediocri giocatori stranieri, il discorso diventa ancora più spinoso. Molte società scommettono su giovani stranieri perché se un sudamericano gioca da professionista a 18 anni, un italiano riesce a farlo di media a 20/21. Insomma, all’estero i giovani giocano prima, si formano e si misurano con i grandi, sono giocatori più competitivi e già pronti per il salto. A questo punto che fare dei nostri ragazzi, anche di talento, in quei due-tre anni? Mandarli in prestito nelle serie minori con il rischio di non vederli giocare? La maggior parte dei prestiti va in questa direzione, ma spesso chi riceve il prestito non bada alla crescita del giocatore e non valorizza il ragazzo. Un cane che si morde la coda e a rimetterci sono i giovani virgulti. Non è un Paese per giovani calciatori, ma non è che negli altri ambiti (ricerca, mondo del lavoro) le cose vadano in maniera differente.
Rose più ridotte, Primavera che venivano inseriti gradualmente in prima squadra: erano gli Anni Ottanta, un calcio diverso, con ritmi diversi e meno partite. Imporre un certo numero di Primavera potrebbe essere una medicina importante. Ma i grandi club accetterebbero? In più, se in altri ambiti lavorativi sono molti i giovani costretti a cercare fortuna all’estero, i nostri calciatori difficilmente si trasferiscono in campionati stranieri, con il risultato che hanno scarsa duttilità, scarsa conoscenza dei campionati stranieri e scarsa esperienza una volta che vengono chiamati a giocare partite internazionali con le rappresentative azzurre. Prendiamo il caso di Scuffet che in estate ha rifiutato il campionato spagnolo e l’Atletico Madrid, perdendo un treno importante per la carriera di un giocatore. Non staremo qui a dire se il portierino dell’Udinese ha fatto la scelta giusta o meno, ma questo è un ulteriore esempio di una differenza culturale che diventa un handicap da non sottovalutare. La famiglia di Scuffet ha deciso che il ragazzo dovesse terminare gli studi (iniziativa lodevole quanto importante) e contemporaneamente il portiere è stato superato nelle gerarchie dal più esperto Karnezis.
Ma la scorsa estate è stata anche quella di Ciro Immobile, classe 1990, che invece ha scelto di fare il grande salto trasferendosi in Germania al Borussia Dortmund. Capocannoniere dello scorso campionato, in comproprietà tra Toro e Juventus, ha preso il volo per la Bundesliga, dove non senza fatica sta provando ad imporsi. Ma se la scelta di Immobile è stata più che comprensibile, molto meno lo è quella della squadre che avrebbero potuto trattenerlo: se il Toro è stato trampolino di lancio, ma non è abbastanza ambizioso al punto da convincere Ciro a restare, ci sfugge la logica della rinuncia bianconera, soprattutto a fronte dell’ingaggio del classe 1992 Alvaro Morata dal Real Madrid. Plusvalenze, giochi di mercato: inutile cercare di capire. Ma se i campioni d’Italia preferiscono un ragazzo spagnolo (tutto da verificare in Serie A) al capocannoniere del torneo precedente (cresciuto nel proprio vivaio!), qualcosa che non quadra c’è e non può essere solo un mero fattore economico o una valutazione tecnico-tattica. Del resto, oltre a Immobile, la Juve aveva rinunciato a Berardi (pare che il ragazzo avesse chiesto un ulteriore anno di gavetta a Sassuolo), Zaza (un’operazione Juve-Sassuolo in stile Juve-Morata-Real con formula di recompra già fissata) e Gabbiadini, trasferitosi definitivamente a gennaio al Napoli.
Infine, come se non bastassero le polemiche tavecchiane, ci ha pensato il buon Lotito a mettere il carico a briscola con le dichiarazioni contro Carpi e Frosinone, a suo dire non abbastanza importanti e competitive per un campionato importante come la serie A. Certo, per carità, se una frase del genere l’avessimo pronunciata noi in un bar di paese, con un bianchetto davanti, avremmo sicuramente goduto di qualche pacca sulle spalle, qualche risata e qualche cenno di intesa tra gli avventori del locale. Il problema è un altro. In primis, che a pronunciare quella frase è stato un consigliere federale che fa parte del comitato di presidenza. Inoltre, quella frase è uno schiaffo alla credibilità di un intero sistema. Giusto per chiarire le cose, Lotito dovrebbe sapere che in tutti i campionati ci sono realtà piccole che riescono a raggiungere importanti risultati sportivi: prendiamo l’Hoffenheim, Chievo di Germania, tremila anime nel Baden-Württemberg e ottimo protagonista della Bundesliga; o l’Evian proveniente dalla città di Thonon-les-Bains, 34 mila abitanti, Lorient 52mila o Guingamp (8mila) tutte partecipanti alla Ligue1 con discreti risultati; in Spagna possiamo citare i casi dell’Eibar (27mila), del Rayo, del Getafe e non ultimo del Villarreal capace di arrivare in semifinale di Champions nel 2006 e in Europa League nel 2004 e nel 2011. Favole, solide realtà o semplici meteore? Cenerentole pronte a stupire, pronte a sgambettare il Golia di turno: insomma, lo vogliamo capire sì o no che ci piacciono i sogni? Che sono queste le storie che danno speranza a chi lo sport lo pratica e lo segue?
Servono poche norme, lungimiranza, fiducia e nemmeno troppo denaro. Sarà in grado il mondo del pallone di uscire indenne dal guado in cui è finito, risolvendo le sue idiosincrasie, il suo atavico rifiuto delle regole e i fantasmi di un passato fatto di scandali? Ne dubitiamo fortemente anche se nei momenti più bui della nostra storia calcistica ci ha pensato sempre la nazionale a cancellare, come in una gigantesca amnistia, le brutture e le storture di un intero movimento. Manca ancora un anno agli Europei. Nel 1982 e nel 2006 ci superammo vincendo i Mondiali, ma sull’onda dell’entusiasmo per quei trionfi non siamo stati in grado di capire che c’era da festeggiare di meno e da imparare, in fretta, la lezione. Non è mai troppo tardi. O forse sì.
*calciatori italiani nati dal 1990 in avanti.
Questo articolo è stato pubblicato da Contropiede.net e da Ilgiornale.it