A Bari, alla presentazione nel giugno del 2009, Giampiero Ventura disse che oramai, allenava solo per libidine.
Una metafora sessuale, come se allenare equivalesse a provare piacere estremo, una sorta di atto sovversivo rispetto a quelli messi in scena dai suoi colleghi: se per molti suoi colleghi allenare è una sofferenza, per lui è l’esatto contrario.
Così, nasce Mister Libidine e il suo calcio che coniuga bel gioco e risultati.
Così, si presenta nel giugno 2011 ai suoi nuovi tifosi.
Tra andare ad allenare una squadra di serie A per vivacchiare e portare il Torino in serie A, visto che alleno per libidine. Beh, lasciatemelo dire, questa è libidine pura.
Giampiero Ventura, 8 giugno 2011
– Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova.
Paolo Conte & Bruno Lauzi, Genova per noi
Abbronzatura perenne. Camicia sbottonata sul petto. Sorriso smagliante, sguardo e mimica molto espressivi, Giampiero Ventura ha l’aria del playboy di riviera, esperto, navigato, sornione, brillante, ironico.
Uno che sa il fatto suo.
Lo immaginiamo con una giacca blu e una camicia bianca mentre sorseggia un bianco fermo, magari ligure, perché le origini non si rinnegano mai.
Il mare lo ha coccolato e lo ha accompagnato in parecchie tappe della sua carriera e forse è proprio il mare che da cinque stagioni a questa parte gli manca.
Sono passati cinque anni da quando è arrivato a Torino ed è diventato l’allenatore del Toro.
E, qui, a Torino, ça va sans dire, il mare non c’è.
Il mare è silenzio, riflessione, gioia, a volte angoscia; romanticismo, energia. È tutto.
Parola del Mister.
Sanguigno, tenace, deciso. Uno da Toro.
Qualcuno dice che non sia abbastanza tifoso, che non abbia mai dimostrato di essere veramente innamorato di questa squadra.
Strana gente quella del Toro.
Ama i suoi figli ma è pronta ad abiurarli, ripudiandoli: alcuni grandi protagonisti della storia granata, quando sono tornati non hanno avuto vita facile a Torino, poco gli è stato perdonato, forse per troppo amore.
Strana gente quella del Toro, che non ama mai abbastanza chi, in fondo, lo merita.
Ventura viene da Genova, sponda Samp. Ha sempre ammesso che la Samp è il suo grande amore e il suo più grande tormento, proprio come una bella donna che non sei riuscito a conquistare, come un amore finito male che ti ha lasciato un dolore immenso.
Quel ritorno a Genova e il successivo fallimento mi costarono la carriera.
Quella stessa carriera che da cinque stagioni lo vede protagonista di un Rinascimento a tinte granata.
Quella carriera che questa estate stava per prendere rotte diverse, quella carriera che se fosse arrivata un’offerta irrinunciabile, a 67 anni…come si fa a dire no?
Ma Mister Libidine lo sa: Nel mare, i se, se li portano via le onde.
– Guardò il mare e capì fino a che punto era solo, adesso.
Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway
Quando Ventura approdò al Toro, il vaso era colmo. Anni di fallimenti, società in difficoltà gestionale, tifoseria sull’orlo, dell’ennesima, crisi di nervi.
Ventura chiese tempo, pazienza, aiuto, incitamento.
Lo chiese ai tifosi che sin dai primi allenamenti dagli spalti del centro Sisport lo insultavano (pochi), lo incitavano (altri), invocavano risultati (molti), chiedevano inflessibilità nei confronti del vituperato presidente Cairo (tanti), invitandolo a pretendere giocatori in grado di riportare il Toro in A.
E certo che i giocatori servono. Ma prima di loro serve un’idea, uno stile, un’unità di intenti.
I tifosi granata non capirono il vento di novità che li stava per travolgere.
Alla prima di coppa Italia, in una calda serata agostana, contro il Lumezzane, il Toro si impose per 1-0 davanti a nemmeno diecimila spettatori grazie ad un gol di Antenucci che permise ai granata di qualificarsi per il secondo turno.
Ventura ricorderà spesso quell’esordio, lo citerà anni dopo, nel post partita di un’altra qualificazione (quella ai sedicesimi di Europa League): “Il Toro partito dal Lumezzane era il Toro della disperazione.”
E da quella disperazione, da quella solitudine, Ventura parte. Pardon, salpa.
– Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai.
Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway
Negli anni, il Toro di Cairo è diventato sempre più il Toro di Ventura.
L’editore alessandrino ha spesso lasciato i suoi mister (e i suoi tifosi) a bocca asciutta: tacciato di non allargare mai o quasi mai i cordoni della borsa, Cairo non ha investito in maniera massiva nel Toro.
E anche i primi anni sotto la guida di Ventura hanno rispettato in pieno questa abitudine: squadre rabberciate da prestiti e comproprietà, molti giocatori di esperienza, alcuni a fine carriera.
Ma con Ventura, qualcosa cambia.
Già, perché Ventura vuole la sua ciurma, i suoi uomini, gli aficionados, quelli che già conosceva e che aveva allenato in precedenza.
Soprattutto all’inizio della sua avventura granata, ad ogni finestra di mercato, al Toro vengono accostati giocatori ex del Bari e del Pisa, uomini per cui Ventura metterebbe la mano sul fuoco.
In ordine sparso, nel corso degli anni, al Toro arriveranno: Padelli, Guberti, Gazzi, Parisi, Barreto, Glik, Gillet, Masiello, Meggiorini, Antenucci, Zavagno e Cerci, nove ex Bari e tre ex Pisa, a questi verranno accostati a più riprese Rivas, Castillo e Almiron.
Ventura mostra sicurezza: “Non è importante il nome di chi arriva. E’ importante che, chi arriva si metta a disposizione della squadra, del mister e dello spogliatoio“.
E come tutti i capitani di lungo corso, Ventura ha bisogno dei suoi fedelissimi perché deve raggiungere un obiettivo importante.
Non può correre rischi.
Ventura è considerato dagli addetti ai lavori, un maestro di calcio, uno che insegna calcio.
Ma spesso, in un mondo molto particolare come quello del pallone, c’è chi ha voglia di imparare e chi no: negli anni trascorsi al Toro, capiterà che alcune promesse (peraltro non ancora mantenute) come Gianluca Sansone, Nicola Bellomo e Juan Sanchez Mino lasceranno la squadra dopo essere stati bocciati dal Mister.
Ventura insiste con Cairo per avere i suoi uomini e alla lunga li ottiene, perché sa farli rendere al meglio, li coccola e li blandisce fino a quando, inevitabilmente, qualcosa si rompe.
I casi emblematici sono quelli di Cerci, l’Henry di Valmontone, e Paulo Vitor Barreto. Il primo rivitalizzato dalla cura Ventura (l’unico di fatto ad averlo capito ed inquadrato calcisticamente) ha fallito nel calcio che conta mentre il secondo non è stato capace di tornare ai livelli di Bari.
Entrambi, non seguendo il loro nocchiero, hanno fatto naufragio.
– Le idee ispirate dal coraggio sono come le pedine negli scacchi. Possono essere mangiate ma anche dare avvio ad un gioco vincente.
Johann Wolfgang Goethe
La vera rivoluzione arriva dal campo e dal modulo, il famigerato e tanto spregiudicato, quanto redditizio, 4-2-4 che Ventura propone nel Toro versione 2011/12 (in B) e per tre quarti di campionato in A (2012/13).
A Torino non ci si crede.
Con quattro punte hanno giocato l’Ungheria di Puskas, quel giramondo di Bela Guttmann al San Paolo, il Brasile del 1950 e del 1958, però loro avevano Pelé, Didì, Vavà e Garrincha.
Abituati ad anni di lancia e spera, spizza e spera, crossa e spera, i tifosi granata assistono ad un gioco propositivo, fatto di un eterno giro palla atto a stanare gli avversari e sfruttarne gli spazi sguarniti, creando superiorità numerica sulle fasce dove gli esterni devono fare la differenza.
Uno stile di gioco in cui gli interni di centrocampo si inseriscono senza soluzione di continuità, gli attaccanti giocano di prima e di sponda, si muovono molto e fanno spesso veli o rapidi dai e vai.
Una squadra che gioca il pallone e che non lo butta mai via.
A partire dall’abbrivio dell’azione, grazie al portiere che è il primo costruttore di gioco: dall’avvento di Ventura al Toro, gli estremi difensori che si sono avvicendati in porta (Coppola/Benussi/Gillet/Padelli) non ricorreranno mai al rinvio canonico, ma cercheranno sempre di giocare la palla per mantenerne il possesso, anche quando le squadre avversarie presseranno alte per mettere in difficoltà i difensori.
Certo, ogni tanto capiterà qualche retropassaggio o qualche disimpegno non particolarmente sicuro e tranquillo, ma l’idea è quella di rischiare qualcosa in fase di costruzione per iniziare la fase offensiva e mantenere ben salda una precisa identità.
Ovvio che il rischio di perdere palloni sanguinosi sia altissimo, ma questa è la vera libidine: uscire palla al piede, saltare con un passaggio basso e verticale tre-quattro avversari per attaccare rapidamente le difese avversarie.
E’ una squadra, il Toro, che deve saper uscire palla al piede, una squadra che sa tenere bassi i ritmi, soffrire se necessario, ma nelle idee di Ventura, il Toro deve essere consapevole che con il passare dei minuti, gli avversari si sfiancheranno in un pressing inutile e allora verrà il momento per colpire.
I tifosi stentano a capire. Invitano i propri calciatori ad andare in avanti e non a passare il pallone all’indietro.
Le prime partite di Ventura al Toro furono uno “strazio” e dagli spalti arrivò più di un invito: “Campa giùùùù” (trad. piemontese, Lancia lungo!)
E giù mugugni.
E più la gente mugugnava, più Ventura pretendeva che il giro palla e il possesso della stessa, fossero estenuanti.
A Castellamare di Stabia, il mare c’è.
E c’è anche il Toro di Ventura.
Mancano una dozzina di partite alla fine del campionato di serie B. Il Toro è primo in classifica.
Nel catino del Romeo Menti la sorprendente Juve Stabia imbriglia il Toro. O quantomeno ci prova.
Solo che invece di pressare alto come fanno tutti quelli che il Toro lo vogliono mettere in difficoltà, le Vespe di Piero Braglia si schierano sotto palla con tutti e undici i giocatori.
Una sorta di difesa pugilistica a mani basse.
Il Toro invece di caricare, aspetta.
E più la Juve Stabia è inerme, più il Toro aspetta. Al 10’ del primo tempo, per qualche minuto la palla passa dai piedi di Glik a quelli di Pratali. Infinite volte.
Il pubblico rumoreggia, fischia.
Il Toro arriva da una batosta casalinga contro il Verona e Ventura non vuole correre rischio alcuno: sono gli avversari che devono scoprirsi. Non il Toro.
E così Ventura impone quella melina, quella infinita melina che non ti aspetteresti mai da chi è primo in classifica.
Il momento della squadra è difficile. Perdere ancora (e a Castellamare il Toro avrebbe meritato di perdere) vorrebbe dire entrare in una spirale negativa proprio sul finire di un campionato che il Toro deve abbandonare il prima possibile.
Accadrà altre volte negli anni.
A Empoli, nella stagione scorsa, il Toro produsse il peggior calcio dell’epoca Ventura, ma la ragion di stato andava cautelata. Periodo difficile, punti da mettere in cascina, tante partite da disputare tra Europa League e campionato, squadra stanca.
Un punto, in tempi in cui il mare è agitato, è sempre meglio di niente.
Ed è proprio a causa di mareggiate improvvise che lo spregiudicato 4-2-4 venne messo nella stiva per un più prudente 3-5-2.
La prima volta della nuova veste tattica di Ventura va in scena alla Scala del Calcio. È il 5 maggio 2013 e da quel giorno il 4-2-4 sarà solo un ricordo: il Toro e le sue fortune future dipenderanno da una pura e semplice ragion di stato.
Servono punti salvezza, mancano quattro giornate alla fine del campionato e davanti ad un Milan in cerca di un posto Champions, la libidine lascia spazio al pragmatismo.
Il Toro perde 1-0 a 6’ minuti dalla fine, dopo aver rischiato a più riprese di segnare (in contropiede) il goal del vantaggio.
Cambiare non volle dire sbugiardare il proprio credo ma capire e ammettere che quel Toro, in quel momento, aveva bisogno di altro.
Per Ventura però quello che conta non sono i numeri (4-2-4, 3-5-2), per lui quello che conta è solo continuare a Far frullare la palla.
– La verità non sembra mai vera.
Le memorie di Maigret, di Georges Simenon
Quando ascolto le dichiarazioni di Ventura penso sempre che dalla regia abbiano sbagliato e stiano mandando in onda sempre la stessa intervista post partita.
La dichiarazione suona più o meno così: “Abbiamo meritato e forse avremmo potuto segnare qualche goal in più. Del resto quando metti l’uomo davanti alla porta 4-5 volte e crei così tante opportunità…”
Certe volte aggiunge che questa squadra è partita da lontano, ricorda dove è arrivata e dove può approdare.
Ecco, il termine giusto è approdare.
Un altro termine che ricorre spesso nelle interviste è quello relativo alle conoscenze.
I neoacquisti, difficilmente vanno in campo subito perché, con Ventura, devono apprendere le conoscenze: prendiamo Maksimovic, oggetto del desiderio di molte squadre nel mercato estivo. Il suo arrivo è datato giugno 2013 e la sua prima partita da titolare è stata disputata il 15 dicembre 2013. “Il ragazzo ha appreso le conoscenze.” E da quel giorno sarà titolare inamovibile nella difesa a tre.
Gli esempi, la reiterazione nel linguaggio Venturiano sono fondamentali.
Si ricorre all’esempio per spiegare, per dimostrare, per ricordare che se il modus operandi che è stato adottato, ha funzionato, allora quello è il modo giusto di fare le cose.
“Quando sono arrivato qua non c’era tutto questo entusiasmo, domani invece ci sarà il tutto esaurito. Vuol dire che abbiamo raggiunto uno degli obiettivi che ci eravamo prefissati all’inizio, cioè, di creare una simbiosi tra tifosi e squadra“.
Questa dichiarazione è il manifesto venturiano per eccellenza.
Potremmo averla sentita più volte negli anni e riassume quanto detto in precedenza.
Le parole e le promesse da marinaio Ventura sa sfoderarle nei momenti giusti.
Ventura è un dritto. Non è certo l’ultimo arrivato. Sa arringare la folla, sa regalare stoccate, battute taglienti e ironiche, sa da uomo di mare, che ogni promessa è debito.
Così, se nel ritiro di Mondovì (agosto 2013) disse che “L’obiettivo è di vincere almeno un derby e lo vinceremo” (li perdemmo tutti e due di misura, ndr), le parole dopo un anno (agosto 2014) furono più caute e meno avventate “L’anno scorso ho detto che lo avremmo vinto, quest’anno per scaramanzia prometto di non vincerlo, l’anno scorso il contrario ha funzionato…”.
Un bagno di umiltà che con il senno di poi, ha pagato.
Una delle massime preferite da Ventura è, da sempre, il famoso “Se vogliamo possiamo”.
In questi anni di militanza granata, questa frase è quella più tangibile, più facile da verificare, quella che misura i miglioramenti di un gruppo tecnicamente non eccelso, che con il passare delle partite ha compreso che attraverso il lavoro quotidiano si possono raggiungere risultati a volte insperati.
Un monito scritto sulle lavagne, nello spogliatoio, ripetuto a giocatori, tifosi, giornalisti e televisioni.
Le promesse da marinaio, le parole, le interviste post partita e i siparietti a distanza con il suo Presidente, le dichiarazioni a caldo sugli arbitri: tutto sembra seguire un copione.
E se Ventura non ama parlare dei singoli quando è chiamato a farlo, declina il “Se vogliamo possiamo” in “Se vuole tornare ad essere protagonista, deve deciderlo lui.”
Singolare, plurale, squadra o singoli, contano solo lavoro e volontà.
– Lo stadio chiamato San Mamés, tra gli appassionati è anche conosciuto come La Catedral. È diventato La Cattedrale perché non c’è stato stadio più rispettato in tutta la Spagna e perché, al tempo stesso, nessuno stadio è stato più rispettoso delle tradizioni del calcio.
Santiago Segurola
Il Toro ritorna in Europa grazie ad una serie fortuita di coincidenze.
Arriva settimo in campionato grazie anche ai grandi numeri di Cerci e Immobile e approda ai preliminari di Europa League per l’estromissione del Parma.
Rosa ridotta all’osso, giocatori che non hanno mai messo piede al di fuori dall’Italia e che non hanno mai disputato una competizione Europea, giovani di belle speranze: è questo il Toro europeo targato di Ventura, anche lui alla prima esperienza europea alla veneranda età di 66 anni.
Eppure questo Toro che deve fare le nozze con i fichi secchi, parte per la sua traversata superando agevolmente la fase preliminare e poi quella a gironi: il primo goal lo subisce dopo sette partite, perde un solo match nei primi dieci disputati (contro l’HJK nei gironi, ininfluente ai fini della qualificazione), sbanca Copenaghen con un risultato da urlo (1-5) e approda ai sedicesimi a dispetto dei pronostici.
Qui il sorteggio non è benevolo e mette Ventura e i suoi ragazzi di fronte all’Athletic Club Bilbao, spauracchio delle squadre italiane, perché lì, al San Mames (né quello vecchio, né quello nuovo) nessuna squadra del nostro Belpaese ha mai vinto.
All’andata, a Torino, finisce 2-2. Toro bloccato dall’emozione, poi padrone del campo e infine imbrigliato dalla maggior esperienza dei Rojiblancos: basti pensare che i baschi erano appena stati eliminati dalla Champions League e che solo due anni prima erano stati finalisti in Europa League (sconfitti dall’Atletico Madrid).
Maggior esperienza, scaltrezza, abitudine a giocare partite da dentro e fuori.
Ma il Toro ci crede e, in quel di Bilbao in una notte piovosa e indimenticabile, vince 3-2, compiendo un’impresa che sembrava all’apparenza, impossibile.
Vince un calcio aggressivo, propositivo, mai sparagnino, a tratti compulsivo e non compassato come Ventura ama predicare: serviva una lucida follia per uscire tra gli applausi del San Mames.
E così è stato.
A Bilbao c’è una versione matura e consapevole del Toro e dei propri mezzi che prima ha messo alle corde l’Athletic e poi lo ha finito all’angolo grazie ad una netta superiorità tattica.
Non ci sono più Cerci e Immobile, vero. Ma come dice il Mister:
“Non contano i nomi. Si vince solo attraverso il lavoro e questo gruppo, a detta di molti, sembrava incapace di giocare come l’anno scorso. Faccio i complimenti ai miei giocatori ma soprattutto a quelli che erano ad Ascoli (prima partita di serie B, stagione 2011-12). Feci un discorso quel giorno. Eravamo in uno sgabuzzino a 40 gradi e c’erano Darmian, Glik e Vives. Sono passati attraverso qualsiasi cosa, qualsiasi critica. Insieme abbiamo ricostruito qualcosa di importante.”
Ancora una volta il passato, ancora una volta le radici, ancora una volta la consapevolezza raggiunta.
Perché in questa storia, gli eventi e le parole tornano sempre.
E la parola da segnare in rosso è ricostruito.
– Passa il tempo sopra il tempo | ma non devi aver paura | sembra correre come il vento | però il tempo non ha premura.
La stagione del tuo amore, Fabrizio De’ André
Uno dei leit-motiv del Toro di Ventura è quello relativo al tempo.
Una frase così, serve un assist facile facile a chi vuole scrivere: il tempo è relativo, ma soprattutto è galantuomo e restituisce tutto.
Proprio come il mare. Perché in questa storia, gli eventi, le parole e il mare, tornano sempre.
A chi aveva fretta Ventura chiedeva tempo. E il tempo gli sta dando ragione.
Il tempo che era trascorso senza vedere il Toro in Europa (dodici anni), il tempo che era trascorso senza segnare un goal nel derby (dodici anni), il record di giocatori prestati alle Nazionali (sempre dodici, marzo 2015), le quattro vittorie di fila in campionato (dodici punti!) che non arrivavano da trentasette lunghi anni.
Trentasette come gli anni senza un capocannoniere granata padrone della classifica marcatori: stagione 1976/77, Graziani, stagione 2013-14, Immobile.
Ventisette come gli anni necessari a vincere contro l’Inter a San Siro (1988-2015), ventidue come gli anni necessari per vincere, fuori casa, all’esordio in campionato (2015/16, Frosinone) e soprattutto, quei venti lunghissimi anni per vincere una stracittadina.
Era il 9 aprile 1995 e Rizzitelli castigò due volte la Vecchia Signora.
Ecco perché il 26 aprile 2015 sarà una data indimenticabile per i tifosi granata.
Ecco perché quella vittoria significa liberazione, felicità e commozione.
Non è necessario dirlo, ma tutto questo tempo passato non è passato invano.
Il tempo che Ventura chiedeva per riportare il Toro dove gli compete, adesso sta rimettendo insieme tutti i tasselli che il tempo stesso aveva distrutto.
E il tempo è servito per ricostruire.
Ventura è il deus ex machina, il mentore, il nocchiero ma soprattutto un uomo che conosce il suo mestiere e sa quanto è aleatorio il momento, l’attimo.
Lo sa e ne rispetta l’andamento, proprio come si rispetta il mare.
– Questa notte che corre | e il futuro che viene | a darci fiato.
Ivano Fossati, Una notte in Italia
La sua visione del futuro è un insieme di parole semplici. Dirette.
Ventura ha sposato un progetto che solo adesso sta prendendo forma.
Al Toro last minute dei tanti prestiti e delle comproprietà, ha fatto finalmente spazio la versione Ventura no.5 (2015/16) figlia di un’incertezza durata lo spazio di un sospiro.
Finita la stagione con la roboante vittoria contro il Cesena nell’ultima di campionato, il rompete le righe assomigliava molto ad un addio.
“Mi piacerebbe allenare la Nazionale”, “Il Milan mi vuole?”, “La Fiorentina mi cerca?” sono solo tre delle frasi buttate lì sul finale della stagione dal tecnico ligure.
Ma ce ne è una quarta, fondamentale, che è quella che lega il futuro di Ventura al Toro.
“Bisogna alzare l’asticella.”
Quattro anni, nel calcio soprattutto, sono un periodo lungo nel quale se i risultati sono stati centrati molti stimoli vengono a mancare a meno di non rompere gli schemi del passato per buttarsi a capofitto nel futuro.
Quello di Ventura non è un diktat ma una constatazione pura e semplice.
Il Toro deve proseguire su un certo tipo di discorso, ma la qualità dei suoi interpreti deve necessariamente crescere.
E questo, accade.
Il mercato è un florilegio di acquisti mirati, voluti, programmati, giovani e futuribili: Avelar, Acquah, Obi, Benassi, Baselli, Zappacosta e Belotti.
Il Toro vede il futuro e, almeno questa volta, l’orizzonte è sereno.
Ventura parla di bambini fieri di portare finalmente la maglia della propria squadra, di stadio pieno dopo anni di vuoti a perdere, di giocatori che vogliono venire al Toro e di altri che non vogliono andare via.
È una meravigliosa inversione di tendenza che Ventura ha contribuito a costruire.
Anzi, a ricostruire.
Allo stesso tempo, però, Ventura deve fare il pompiere perché lo sa che il calcio toglie e il calcio dà: il gruppo è giovane e si devono mettere in preventivo alti e bassi.
Momenti.
E anche questa volta, Ventura chiederà tempo e predicherà pazienza.
Nel suo futuro e in quello del suo Toro c’è una meta precisa separata solo da una lunga traversata.
E lui la conosce.
Numerologia e statistiche
Giampiero Ventura, nato a Genova, il 14 gennaio 1948.
Ha allenato Albenga, Rapallo, Entella, La Spezia, Centese, Pistoiese, Giarre, Venezia, Lecce, Cagliari, Sampdoria, Udinese, Napoli, Messina, Verona, Pisa, Bari e Torino.
Ventura allena il Toro dal 2011. Sotto la sua guida, il Toro ha disputato 179 partite con un bilancio di 74 vittorie, 55 pareggi e 50 sconfitte, con 248 goal fatti e 196 subiti.
Ecco il dettaglio:
Serie B 42 giocate
24 V 11 N 7 P
Serie A 116 giocate (comprese le prime 2 giornate del campionato 2015/16)
39 V 40 N 37 P
Coppa Italia 7 giocate
3 V 4 P
Europa League 14 giocate
8 V, 4 N, 2 P
Statistiche 2014/15
Passaggi completati 81.8% (6° posto)
Possesso palla 48.3 (12° posto)
Tiri per partita 14.4 (6° posto)
Tiri in area 51% (3° posto)
Tiri concessi 13.8 (8° posto)
Statistiche 2013/14
Passaggi completati 83.7% (6° posto)
Possesso palla 48.8 (11° posto)
Tiri per partita 13.1 (10° posto)
Tiri in area 47% (6° posto)
Tiri concessi 14.1 (7° posto)
Statistiche 2012/13
Passaggi completati 82.3% (7° posto)
Possesso palla 49.6 (11° posto)
Tiri per partita 11.3 (15° posto)
Tiri in area 49% (4° posto)
Tiri concessi 12.8 (14° posto)
Questo articolo è stato pubblicato in anteprima da Crampi sportivi.
Ma da dove è uscito?? Con tutti gli allenatori che ci sono in Italia sono andati a pescare questa capra!